Un altro articolo per l’otto marzo

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Foto: A. Graziadei

Il patriarcato torna a far discutere. Merito dei familiari di Giulia Cecchettin che hanno iniziato ad esporsi all’indomani del femminicidio. Risultato: si è cercato di zittire sia il padre che la sorella, colpevoli di strumentalizzare il loro dolore e di voler diventare famosi; il femminicida invece è diventato il povero ragazzo che soffre molto in carcere

Buon 8 marzo quindi: ecco perché parlare di patriarcato nel 2024 purtroppo ha ancora senso.

Per la Treccani il patriarcato è un “tipo di organizzazione familiare a discendenza patriarcale, in cui cioè i figli entrano a far parte del gruppo cui appartiene il padre, dal quale prendono il nome, i diritti, la potestà che essi trasmettono al discendente più diretto e vicino nella linea maschile”; per estensione, “complesso di radicati, e sempre infondati, pregiudizi sociali e culturali che determinano manifestazioni e atteggiamenti di prevaricazione, spesso violenta, messi in atto dagli uomini, spec. verso le donne”. 

Per quanto riguarda il primo aspetto è difficile obiettare: viviamo in una società dove la discendenza è sempre passata attraverso la linea paterna, e dove le donne erano considerate una proprietà. Fortunatamente oggi alcuni uominipercepiscono le donne come essere umani autonomi. La Corte Costituzionale si è espressa più volte sulla possibilità di attribuire anche il cognome materno alla prole –nel 20162022 e 2023. Manca però una riforma organica per rendere attuabile questa possibilità, importante a livello simbolico per riequilibrare un sistema sbilanciato a favore del maschile.  

E per quanto riguarda i pregiudizi sociali e culturali citati nella seconda parte della definizione? Ad uno sguardo superficiale la parità è un dato di fatto. Anzi, qualcuno afferma che ormai le donne hanno più diritti degli uomini.

Breve excursus. La giornalista britannica Reni Eddo-Lodge ha scritto un libro dal titolo “Perché non parlo più di razzismo con le persone bianche” (pubblicato in italiano da edizioni e/o). Spiega come il razzismo sia un fatto sistemico; con le opportune attenzioni, la sua analisi si può traslare al sistema patriarcale – sistema che ha solo modificato i suoi modi, ma che è vivo e vegeto. Uno dei suoi elementi costitutivi è il privilegio maschile; parlarne è importante, ma non sappiamo come farlo. Nota a margine: appena pronuncio le parole “privilegio maschile”, tanti uomini saltano sulle sedie. C’è un malinteso alla base: privilegio maschile non significa che gli uomini abbiano vita facile. Anche loro studiano, lavorano, si fanno il mazzo. Come spiega la giornalista, il privilegio bianco – e maschile - non si realizza tanto nella presenza di qualcosa; quanto nell’assenza di qualcos’altro. Qui sta la difficoltà nell’argomentare, perché spiegare un’assenza è molto più complesso che narrare ciò che è sotto gli occhi di tutti. Il privilegio maschile si traduce nell’assenza di quegli ostacoli strutturali che invece fanno parte della vita quotidiana delle donne; che la politica dovrebbe rimuovere, come da Costituzione. Invece li coltiva e li promuove, anche se a guidare il governo c’è una donna: essere donna non si traduce automaticamente nell’agire a favore della giustizia sociale. Questo governo si sta dimostrando particolarmente feroce nei confronti delle donne, che sono considerate macchine da riproduzione chiamate ad ovviare al calo demografico. Tentativo di risolvere l’eterno problema del debito pubblico (leggi: pensioni), o nostalgia per le ideologie del secolo scorso? 

Torniamo agli ostacoli: un elenco completo lo si trova nel Report delle “Organizzazioni della società civile italiana per la CEDAW” (la Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna) pubblicato a gennaio da 32 organizzazioni di donne e 4 esperte indipendenti, coordinate da D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza. Qualcuno sbufferà e dirà: “è il solito report fazioso scritto dalle nazifemministe”. Inviterei a leggerlo senza pregiudizi, è un documento snello, privo di fronzoli, e con valutazioni oggettive. In questo articolo considererò due grandi temi affrontati nel report, ed i lori ostacoli: lavoro e violenza. 

Nel caso del lavoro, l’ostacolo è la famiglia; e qui parlerò solo di famiglia intesa come figli, per motivi di spazio. Il 20 % delle madri lascia il lavoro dopo il parto. Il tasso di occupazione delle donne tra i 15 ed i 64 anni è del 52,6 %, con marcate differenze tra nord (58,2%) e sud (31,7 %). Il lavoro di cura è sbilanciato a sfavore delle donne, che devono farsene carico con scarsissimi aiuti in termini di welfare (poche iniziative, di cui possono usufruire poche donne, per poco tempo)A scapito anche di quegli uomini che stanno portando avanti un cambiamento, e che vorrebbero prendersi cura della propria prole. I congedi di paternità prevedono 10 giorni e sono scarsamente retribuiti: paradossalmente conviene buscarsi un brutto raffreddore e mettersi in malattia. Si sta a casa lo stesso e si viene pagati di più. Qual è l’alternativa per la cura dei piccoli? Di certo non i nidi pubblici: la percentuale dei bambini iscritti è del 14 %. 

Difficile quindi stupirsi del calo demografico: chi è che ha voglia di rinunciare ai propri sogni e sacrificarsi? 

Si argomenta che sono le donne stesse a scegliere di restare a casa con i figli perché gli uomini guadagnano di più, e quindi conviene alla famiglia nel suo complesso.

Questo può essere vero. 

Perché allora quando si fa presente che la retribuzione degli uomini è mediamente superiore a quella delle donne (Istat, 2023) e che è necessario colmare il divario retributivo, la risposta è sulla difensiva e basata su fumosi criteri meritocratici, che di meritocratico non hanno nulla? 

Sacrificarsi per la famiglia comporta poi due grandi pericoli: la povertà al momento della pensione - se le donne lavorano meno ore (quando lavorano) e con retribuzioni inferiori, ovviamente la pensione sarà bassa; e la dipendenza economica – nel caso di violenze in seno alla famiglia è un ovvio deterrente al denunciare e lasciare il partner. 

Parliamo di violenza: secondo l’Istat (2020), il tasso di denunce si attesta al 15 %; circa la metà vengono archiviate senza arrivare a processo. Per i casi restanti, i tassi di condanna sono bassi. 

Non si denuncia, e anche quando lo si fa i riscontri sono vergognosi. Quindi: vale la pena denunciare? No.

Non vale la pena non solo per le condanne irrisorie; ma anche perché grazie al lavoro dei professionisti in ambito legale o la violenza viene vista come uno scherzo (come qui), oppure le vittime diventano imputati (ad esempio qui)

Qual è l’ostacolo invisibile? Di base, il fatto che alle donne non si crede; aspetto che contribuisce in maniera inversamente proporzionale al privilegio maschile. La Riforma Cartabia ha poi incluso una serie di iniziative che di fatto rendono più difficile l’accesso alla giustizia, al netto dei buoni propositi di voler snellire i procedimenti. L’abuso della giustizia riparativa ne è un esempio: questa può essere condotta in qualsiasi momento processuale, senza il consenso della vittima, e perfino in sua assenza. Altamente simbolico e tremendamente ingiusto il primo caso che sembra stia andando in questa direzione; indovinate un po’? Esatto, era un caso di femminicidio.

Questi elementi sono parte integrante del privilegio maschile su cui si basa il sistema patriarcale in cui viviamo. Proprio perché è sistema, avrebbe bisogno di misure strutturali per essere abbattuto, misure che la società civile chiede da decenni, e che sono le grandi assenti nelle politiche di ogni schieramento e colore.

Buon otto marzo.

Novella Benedetti

Giornalista pubblicista; appassionata di lingue e linguistica; attualmente dottoranda in traduzione, genere, e studi culturali presso UVic-UCC. Lavora come consulente linguistica collaborando con varie realtà del pubblico e del privato (corsi classici, percorsi di coaching linguistico, valutazioni di livello) e nel tempo libero ha creato Yoga Hub Trento – una piattaforma che riunisce varie professionalità legate al benessere personale. È insegnante certificata di yoga.

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