Quando Viktor chiese aiuto

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Foto: M. Canapini ®

Di fatto, dopo la chiusura ufficiale delle frontiere balcaniche (e non) nel 2015, migliaia di migranti sono rimasti bloccati in Serbia. I pochi centri d’accoglienza ospitano più persone del dovuto e probabilmente diventeranno casa per i tanti che non saranno in grado di rimettersi in cammino: anziani, disabili, invalidi, utenti psichiatrici. Mehdi proviene da Kapisa, provincia confinante a Kabul. Le casse del suo cellulare diffondono l’eco tremendo di un’esplosione. “Guarda, i talebani si sono fatti esplodere nei pressi di una scuola elementare a Ghazni. Afghan TV parla di ventuno morti… sono passato di là prima di lasciare casa. Ghazni è conosciuta per i suoi minareti costruiti a pianta stellare. Dovrebbero raggiungere un’altezza di sessanta metri e costituiscono i resti della moschea di Bahramshah. L’Iran pure mi è piaciuto molto, ho trascorso due mesi a Teheran. In Iran hai problemi solo se sei omosessuale o ateo. Il lato positivo di essere un migrante e toccare tanti paesi è il fatto di imparare molte lingue. Sono diretto in Svizzera o in Olanda, dove mi aspettano gli zii. Il problema dell’Afghanistan non sono i talebani né i fondamentalisti, ma il governo che permette tutte queste morti. Esplosioni o attacchi accadono spesso, non puoi mai stare tranquillo. Se non fosse per questo si vivrebbe molto bene! La gente è ospitale, il paesaggio unico”. Veniamo interrotti da una baruffa. Dada, 16 anni, randella a destra e sinistra, difendendosi coi bicipiti asciutti e rabbiosi. Appena l’atmosfera si distende, il giovane ghanese fa dietrofront: “È questo il mio tempo! Sono giovane e forte e ho amici in Italia, Germania, Francia. Ho evitato la Libia e il Mediterraneo, optando per la Turchia. Perché non velocizzano la burocrazia? Perché a un padre come Mamadou, che è qui dentro da due anni, non lo aiutano a cercare lavoro, un’opportunità? Tanti minori come me sono allo sbando, arrivano qui credendo di trovare l’America. Se potessi tornerei indietro… Ma non posso. Ho un fratello e una sorella in Ghana, ma guarda alcune sicari come mi hanno ridotto per vecchi rancori” urla Dada, storpiando le parole. Sollevando la maglietta, un’enorme cicatrice rosea unisce la clavicola agli addominali. La ferita è frastagliata, come fosse stata fatta con un seghetto o un coltello da cucina. “Qui dentro diventi matto, se non lo sei già diventato”. Allarmata dal parapiglia, accorre Zorana, psicologa. “Alcuni dei ragazzi presenti si auto lesionano, forse per dimostrare qualcosa, per imitare altri o perché realmente instabili e depressi. La depressione raggiunge vertici clamorosi, ma anche la dipendenza da droghe sintetiche non scherza. Molte donne soffrono della sindrome post traumatica da stress. È tutto così complicato, in questi non luoghi proviamo ad alleggerire l’attesa col dialogo”. Ho la sensazione che in pochi, forse nessuno, abbiano idea di come si possa migliorare o arginare una polveriera. Involontariamente incrocio Farhad Nouri, 11 anni, un giovanissimo profugo afgano distintosi per il suo talento artistico, tanto che il presidente Aleksandar Vučić ha promesso la cittadinanza serba a lui e alla sua famiglia. Bambino prodigio, viene chiamato dai fari della ribalta. Farhad si avvala di un blocco da disegno, di una matita e dello Smartphone, dove raccoglie immagini e modelli da riprodurre: Picasso è l’idolo indiscusso. Il giovanissimo pittore che sogna la Svizzera, vanta già una mostra all’attivo, molti ammiratori famosi, un lungo articolo sul New York Times e un servizio fotografico dell’Associated Press. L’unica cosa che manca è una via di fuga dal campo di Krnjača, sebbene il governo si sia impegnato per procurare un lavoro al padre. È parere di molti che, dietro i trafiletti enigmatici quali la “Serbia amica dei profughi”, “i terremotati resistenti” o “gli infermieri eroi”, è facile fiutare una retorica con cui gli sbagli e l’indifferenza delle istituzioni vengono deviati. Un modo di utilizzare il linguaggio per spostare la responsabilità su quei soggetti che maggiormente andrebbero tutelati, appioppandoli una medaglia non voluta anziché un reale sostegno. Dentro alle mura del campo, distanti un poco dai capanni titoisti, vivono ancora profughi di vecchie guerre. Non indossano cappelli Pakol o vesti Kanga, poiché casa loro era la Krajina Croata o il Kosovo. Li riconosci dal recinto pitturato, dai girasoli sui davanzali delle finestre, dai pesci rossi a nuoto dentro bocce di vetro. Gradualmente si sono insediati, senza più andarsene. La Storia è una tombola ciclica.

Maximo, ragazzo argentino di 25 anni, pronipote di immigrati piemontesi, mi raccatta nel retro della stazione ferroviaria di Subotica. Partiamo di gran lena verso la casa-roccaforte del progetto Dragonfly, ideato dall’associazione Escuela con Alma. “Tentiamo di offrire beni di prima necessità e sostegno legale a tutti i rifugiati che vivono nel nord della Serbia. La loro situazione è estremamente vulnerabile. Il partito conservatore Fidesz (Unione Civica Ungherese) del primo ministro ungherese Viktor Orbán ha presentato in Parlamento una serie di leggi soprannominate Stop Soros, dal nome del finanziere e filantropo statunitense George Soros: si propone di criminalizzare l’immigrazione clandestina e le persone o le organizzazioni che in qualche modo la favoriscono. Chiunque sia scoperto a far ‘propaganda’ per l’immigrazione (il che include anche solo parlarne in toni positivi) o aiutare migranti irregolari a iniziare le procedure per richieste di asilo, potrà essere perseguibile penalmente (fino al carcere di un anno). Inoltre, è stata sancita una tassa del 25% su qualunque finanziamento a qualunque tipo di attività considerata a sostegno dell’immigrazione, anche se proveniente dall’estero. Como our Asociación!” intona Maximo, farfugliando un dialetto anglo-spagnolo inventato lì per lì. L’abitazione, spartana e accogliente, è stata messa a disposizione da Aris, un ungherese a capo del progetto umanitario. Di soppiatto entra in cucina, getta un’occhiata alla calle periferica e finalmente si distende, ingurgitando un uovo. “L’Europa e la polizia ci tengono costantemente sotto controllo. Non tollerano la solidarietà dei cittadini né il coraggio dei tanti migranti residenti a Subotica. Per lavoro gestisco hotel e ristoranti; non mi interessa cosa pensano i miei clienti. Seguo le rotte da anni e per me è giusto e normale che una persona voglia emigrare, per soddisfazione o necessità. Tre volte a settimana andiamo loro incontro, distribuendo ricariche telefoniche, cibo, vestiti puliti. Ingegnandoci, riusciamo a offrirgli anche una doccia calda. Nel 2015 abbiamo fronteggiato una situazione merdosa. Abbiamo contato ben 5.000 albanesi del Kosovo, appartenenti al sottogruppo etnico dei Gheghi, superare il confine sfruttando l’apertura delle frontiere. I media erano tutti focalizzati su Idomeni, il celebre campo della vergogna, ma qui la situazione era altrettanto disastrosa. L’inverno è durissimo ovunque nei Balcani. Sappiamo che la Serbia è una terra di transito come l’Italia… Pure qui tanti migranti finiscono sfruttati in qualche campagna o respinti sulla strada, come accade nel vostro sud”.

Il 31 agosto 2017 il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha scritto al presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, domandando che l’UE si facesse carico della metà dei costi (circa quattrocento milioni di euro) sostenuti dallo stato ungherese per costruire un muro. In sintesi, una doppia barriera di filo spinato, telecamere direzionali, laser infrarossi, microfoni, pattuglie armate. Orbán si è appellato al principio di solidarietà europea. La sua proposta è stata rifiutata perché, a detta di Juncker, la solidarietà europea non può essere richiesta per la gestione dei confini e rifiutata quando si tratta di adempiere alle decisioni prese in merito al ricollocamento dei migranti. Parole da cui emergono narrazioni profondamente inquietanti, che mettono a nudo vergogne. Un muro come simbolo del fallimento globale. Un muro parlante, che impartisce ordini in cinque lingue diverse, in base al migrante di passaggio: arabo, persiano, urdu, inglese, francese. Un muro altamente tecnologico, elettrificato, all’apparenza impenetrabile, sorvegliato da sentinelle e cani da guardia. Karolina, 22 anni: “A Praga non capiscono. Io sono qui per fare del bene e cambiare lo stato delle cose. Dicono sempre che c’è tanto da fare anche in Repubblica Ceca e forse è vero, ma credo che questo sia un momento storico particolare e sento di dover stare qui, sui confini. A casa abbiamo pochi rifugiati, quasi tutti provengono dal Donbass, regione orientale dell’Ucraina devastata dalla guerra. Il nostro governo soffre di xenofobia, ma io no, sono tutt’una coi profughi in cammino”. Il tramonto si spalma sui campi spumosi, sui tetti color magenta. “Gli squat che vedi erano utilizzati come rifugi notturni dai migranti in attesa del salto. Sono stati bruciati dalla polizia, magari da due agenti particolarmente stupidi, ma il risultato non cambia. Quella notte hanno svegliato i quaranta, sessanta ragazzi che ci dormivano dentro, hanno scattato fotografie e infine hanno appiccato il fuoco. In febbraio, con la neve, la temperatura era micidiale” mi informa Maximo. “Quel giorno non ci hanno fatto nemmeno avvicinare. Quando l’incendio è stato domato dai vigili del fuoco, i ragazzi si sono guardati in faccia e sono rientrati nelle casette pericolanti come niente fosse, sdraiandosi su teloni o coperte rimaste illese dalle fiamme. ‘No problem, no problem’ continuavano a dire in coro”. Strisciate di fuliggine attestano l’andirivieni recente e fugace di qualche anima. Dopodiché sopraggiunge il deserto. La brezza serale si insinua tra le travi annerite e i pezzi di metallo divelti dal fuoco doloso. “Qui c’era il bagno, qui la cucina, qui dormivano in venti” prosegue Maximo, sconfortato. Confezioni di latte, medicinali, dentifrici, occhiali, cicale, grilli, erba alta e ruvida, una latrina schifosa coperta di muschio e insetti. Luoghi marginali che testimoniano il passaggio della Storia. Last date in Serbia - Shady (30/07/2017). Storia che passa furtiva pure a Kelebija, villaggio rurale a maggioranza etnica ungherese, tagliato in due dal confine. Dentro stanze fracassate raccogliamo manate di disegni infantili fatti con l’acquerello. Un enorme treno scuote per metà il villaggio: trasporta sacchi di cemento e tubi di alluminio fino a Budapest. È evidente che il mondo è movimento, ma il balzo spesso è concesso unicamente alle merci.

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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