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Fare filosofia in carcere
Giustizia e criminalità
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Foto: Unsplash.com
Il primo giorno che James entra in quella stanza, lo fa cercando di farsi piccolo, piccolo. Vorrebbe essere invisibile. È intimidito dalla situazione: non gli capitava di entrare in una classe da moltissimi anni. James sa che rendersi invisibile è molto difficile per un uomo di due metri d’altezza e centotrenta chili di peso. Curva le sue spalle in avanti, come se potesse chiudersi fisicamente in sé stesso. Cerca di occupare meno spazio possibile sulla sedia dietro al banco. Evita ogni contatto visivo sia con gli altri quattordici compagni di classe, che con la sua nuova insegnante.
Quella di James non è una classe qualsiasi, in una scuola qualsiasi.
La classe di James è una piccola aula senza finestre nel seminterrato del Stateville Correctional Center. Si tratta di un carcere di massima sicurezza a circa un’ora da Chicago, stato dell’Illinois. James e gli altri sono i detenuti di quella prigione. L’insegnante è Jennifer Lackey, professoressa nel dipartimento di filosofia della Northwestern University. Ed è proprio lei a raccontare la storia di James in un TED Talk del 2019, scoperto grazie ad un articolo su Medium in cui Diana, dottoranda in filosofia, ha raccontato la sua esperienza come volontaria in carcere.
L’impatto sulla professoressa Lackey dell’insegnamento in carcere è stato così forte che ha deciso di dedicare parte della sua carriera proprio a questo. Così ha fondato e dirige il Northwestern Prison Education, l’unico programma nell’Illinois ad offrire un percorso di laurea triennale in arti liberali alle persone incarcerate.
La professoressa racconta che negli anni di insegnamento in carcere sono stati molti gli studenti che, a partire dalle lezioni in classe, hanno iniziato un percorso di radicale trasformazione. Allora, la domanda da porci è: perché? Perché leggere di filosofia, di poesia e di storia cambia le persone in un modo così evidente?
La risposta, anzi, le risposte stanno in ciò che lei definisce “il paradosso dell’educazione carceraria”. Questo paradosso è composto da tre contrapposizioni.
Primo. Mentre la prigione è uno spazio disumanizzante, l’educazione è profondamente umanizzante. La vita dietro le sbarre significa manette, catene, contenimenti. Le persone dentro al carcere sono spesso indicate con un numero identificativo, con il numero della loro cella o con il reato che hanno commesso. Una persona diventa l’assassino, lo stupratore, lo spacciatore.
Le celle in cui i detenuti trascorrono gran parte del loro tempo sono grandi abbastanza per contenere il letto e qualche effetto personale. Succede spesso che due compagni di cella, stando entrambi in piedi, si scontrino. Non ci sono separé o porte, perciò gli aspetti più intimi e privati di una persona sono completamente visibili.
La classe è uno spazio dove per definizione si ritorna ad essere persone, anziché carcerati. La professoressa spiega che quando ti connetti con la mente di un’altra persona sulla potenza o la bellezza di un’idea, diventa impossibile negare la sua umanità.
Jennifer Lackey riferisce che alcuni studi empirici hanno dimostrato che i detenuti coinvolti nei programmi di educazione secondaria in prigione hanno mostrato di vivere una vita più piena di significato e di avere una autostima maggiore. Inoltre, l’educazione ha dimostrato di poter abbattere le barriere razziali ed etniche spesso alla base di tensione e violenza, perché migliora le relazioni interpersonali in modo significativo.
Secondo. Mentre la prigione è un luogo di stagnazione, l’educazione ha una portata profondamente trasformativa. La professoressa Lackey ci ricorda che, come società, facciamo discorsi commoventi sul non lasciare le persone a marcire dietro le sbarre. Un discorso ancora più valido dal momento che il sistema di giustizia penale sembra muoversi più verso politiche e pratiche punitive, allontanandosi da quelle riabilitative.
Lackey riporta che, la ricerca di un apposito Bureau dimostrò che il tasso di riarresti entro i primi cinque anni dal rilascio sono altissimi. Tuttavia, se i carcerati hanno potuto frequentare un corso di educazione secondaria e universitario i numeri di recidive diminuiscono drasticamente.
Una trasformazione simile inizia con un nuovo senso di sé e di ciò che è possibile. È qui che il potere trasformativo dell’educazione si contrappone alla stagnazione del contesto carcerario, offrendo prospettive e speranze.
Terzo. Mentre la prigione è un contesto isolante (quando non è effettivamente d’isolamento), l’educazione è costruttrice di relazioni, di comunità. Le prigioni sono tagliate fuori dalla società, occupando quello che la professoressa definisce la “geografia del nulla/non-luogo” (geography of nowhere). In questa geografia, le persone che appartengono a quei non-luoghi sono spesso anonimi, invisibili, ignorabili.
Allora, come riportare indietro queste persone?
La classe è l’opposto, perché richiede partecipazione, confronto, collaborazione. Le idee domandano di essere condivise sia dentro che fuori quello spazio limitato. Porsi domande sul senso della vita è, da sempre, compito della filosofia. In fondo, come sottolinea la Professoressa Mary Margaret McCabe, filosofia e carcere hanno iniziato a frequentarsi da quel 399 a.C., quando Socrate – in attesa di scontare la pena definitiva – rinchiuso in una cella, rifletteva sul significato della vita e della morte.
Nel Regno Unito, c’è una realtà non dissimile da quella raccontata finora e la Professoressa McCabe è una degli amministratori dell’associazione Philosophy in Prison.
Scrivono sul loro sito che l’associazione è nata in risposta ad una crisi del sistema carcerario nel Paese, sia all’interno delle mura dei penitenziari, che per coloro i quali escono da quegli istituti. I fondatori dell’associazione credono che parte della soluzione a questa crisi stia proprio nell’educazione.
Ma, nello specifico, quale educazione?
Guardando alla popolazione carceraria, bisogna constatare che i detenuti possono essere severamente svantaggiati a livello educativo e quindi sentirsi disillusi; possono avere un basso livello di scolarizzazione o una conoscenza ridotta dell'inglese. In questi casi, i detenuti sono ben lontani dal poter frequentare molti dei corsi tradizionalmente offerti in carcere.
Anzitutto, bisogna premettere cosa si intende per Fare Filosofia. Come spiega la professoressa McCabe, c’è una grande differenza tra “avere una filosofia” e “fare filosofia”.
Avere una filosofia ci impegna in un sistema di pensiero globale, dei principi, delle attitudini. Ne sono degli esempi il dualismo, lo scetticismo, il realismo, e tutte quelle scuole di pensiero che si studiano al liceo, ripercorrendo la storia della filosofia.
Ma Fare filosofia si basa sulla costruzione partecipativa delle idee. Chiede di pensare in modo riflessivo e ordinato, sviluppando l’equipaggiamento utile a sviscerare alcune questioni sulla realtà, sui valori di conoscenza e di esistenza. Alla Philosophy in Prison sono certi che, nello spazio delle prigioni, laddove ci sono limitazioni e vuoti educativi, fare filosofia attraverso la discussione filosofica possa riempire questi spazi.
Questo modo di Fare filosofia non richiede tanti requisiti o strumenti, se non l'umana curiosità. Il senso di perplessità che spesso la filosofia ci trasmette con le sue domande scomode è sperimentato da tutti, esperti o meno. Fare filosofia dentro una prigione sospende l'eccessivo peso della competenza in favore di un’impresa comune. Farlo oralmente, faccia a faccia, in tempo reale è impegnativo. Ogni parte è responsabile di ciò che dice, deve spiegare e giustificare le sue argomentazioni.
Nel Fare filosofia c'è un senso di comunità in divenire. La discussione è popolata di idee diverse e questo conduce ad un’attitudine morale. Lo sviluppo di questo tipo di conversazioni porta con sé rispetto, tolleranza e comprensione.
Insomma, fatto in un luogo di limiti e costrizioni, può diventare un momento liberatorio.
Allora Fare filosofia in prigione è ciò che la nostra Costituzione ci prescrive all’articolo 27: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”
A James e alla sua classe viene assegnato un compito di scrittura: in un testo breve, devono raccontare un momento memorabile nella loro cella. Succede qualcosa di eccezionale: il New Yorker sceglie cinque degli scritti da pubblicare e WEBZ ne trasforma otto in una serie podcast per la NPR.
Il compito di James viene selezionato per entrambe.
Quando la professoressa Lackey gli dà la notizia, l’alunno che all’inizio voleva essere invisibile rimane di stucco. Ma poi capisce. La sua voce avrebbe viaggiato per tutti gli Stati Uniti, ben oltre le mura di quella prigione.
Maddalena D'Aquilio

Laureata in filosofia all'Università di Trento, sono un'avida lettrice e una ricercatrice di storie da ascoltare e da raccontare. Viaggiatrice indomita, sono sempre "sospesa fra voglie alternate di andare e restare" (come cantava Guccini), così appena posso metto insieme la mia piccola valigia e parto… finora ho viaggiato in Europa e in America Latina e ho vissuto a Malta, Albania e Australia, ma non vedo l'ora di scoprire nuove terre e nuove culture. Amo la diversità in tutte le sue forme. Scrivere è la mia passione e quando lo faccio vado a dormire soddisfatta. Così scrivo sempre e a proposito di tutto. Nel resto del tempo faccio workout e cerco di stare nella natura il più possibile. Odio le ingiustizie e sogno un futuro green.