Il Cairo: due milioni in piazza al grido “L’Egitto è il nostro paese!”

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“Quanto durerà questa protesta non lo so. Non dipende da noi, ma dal dittatore che non vuole andarsene”. Fatima è convinta di quello che dice. Come i due milioni di persone che ieri hanno invaso Il Cairo. La società civile, che da otto giorni chiede le dimissioni di Mubarak, è più decisa che mai.

Martedì, il giorno dello sciopero generale, le vie del Cairo erano un fiume di gente che procedeva decisa e ordinata verso Piazza Tharir. È questo luogo, sulle sponde del fiume Nilo e del famoso museo egizio, il cuore pulsante della rivolta. La marcia annunciata verso il palazzo presidenziale non c’è stata. Dopo i violenti scontri dei giorni scorsi la protesta va avanti in modo civile, con slogan e cori da stadio. La Polizia, sempre di più vista come “nemica del popolo” non si vede.

Accedere alla piazza è difficile. Alla gente del Cairo si sono unite migliaia di persone arrivate nella capitale da tutto il Paese. Su tutti gli accessi i manifestanti aiutano gli uomini dell’esercito, che perquisiscono chiunque entra, formano cordoni umani. Dentro, l’impatto è forte. Ci si sposta trascinati dalla folla che sventola bandiere egiziane ed esibisce cartelli. Nei giardinetti una ragazza scrive su un cartello con il pennarello azzurro: “Israele supporta sua maestà “Bubarak”, contro i cittadini egiziani”.

Perché nonostante internet sia spento da quattro giorni, la protesta guarda anche all’estero. “USA, Let us rise!”, c’è scritto su un altro cartello. “L’Egitto – racconta Samir – è il nostro Paese. Nessuno può intervenire sulle nostre decisioni. Il popolo non vuole Mubarak e gli stati stranieri che decidono di sostenerlo sono contro il popolo egiziano”. Gli uomini con il megafono in piedi sulle transenne sono ovunque. Ogni tanto qualcuno spinge e scoppia qualche tafferuglio. Ma subito si torna a urlare. Nel palazzo che ospita la moschea dietro alla piazza è stata allestita una infermeria di fortuna e ogni tanto arrivano persone svenute.

Al calare del sole, la piazza non accenna a fermarsi. Il resto della città è morta. I negozi sono chiusi e le auto che passano si contano sulle dita. I militari sono fermi attorno a tutti i luoghi sensibili. Ma soprattutto attorno al palazzo presidenziale. Una marcia verso la residenza del Raìs potrebbe essere la svolta decisiva della protesta. Perché nel caso i manifestanti arrivassero sotto le finestre del palazzo i militari non avrebbero scelta. Si troverebbero di fronte alla scelta di fermare la gente e quindi rischiare un bagno di sangue o farla passare e quindi lasciare liberi i manifestanti di assaltare il palazzo. Quella che per ora è stata soltanto una voce diventerebbe un pericolo.

Ma per adesso la protesta è pacifica. La piazza sa che lo scontro è pericoloso e se ne tiene alla larga, anche se non ha intenzione di chiudere la partita con il “presidente”. Sono sicuri che riusciranno ad andare avanti ad oltranza. Per adesso, con le banche, gli uffici e i negozi chiusi sono riusciti a paralizzare in Paese.

La tensione, per la rivolta egiziana, è alta. Negli accordi tra Egitto e Israele dopo la Guerra dei sei giorni era prevista la presenza nel Sinai della sola Polizia. Ieri, per la prima volta nella storia, lo Stato ebraico ha permesso al governo egiziano di schierare unità corazzate.

Andrea Bernardi
(inviato di Unimondo a Il Cairo)

 

I precedenti articoli sulle manifestazioni nel Nord Africa (dal più recente)

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