Vendo le quote della mia società per recuperare biodiversità

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“Ah certo, può perché ha i soldi, se ne avessi così tanti, anch’io lo farei!”.

Quante volte abbiamo sentito dire – o abbiamo noi stessi detto – parole simili a queste? Pensiamo spesso che tanti gesti dipendano dalle possibilità economiche per compierli, ma è così scontato? Molti di noi avrebbero la possibilità di destinare una percentuale – per quanto piccola – al sostegno di buone azioni. Per vari motivi, che non sono in discussione né in giudizio, non lo facciamo. Però ci piace pensare che se dipenda per lo più dall’avere “tanti soldi” da poter essere avanzati. Ma quanto significa “tanti soldi”? E perché se qualcuno che può investe parte del suo patrimonio in quelle che semplifichiamo con il nome di “buone azioni”, il nostro sguardo si riempie più spesso del dovuto di invidia e diffidenza, con il risultato di sminuirne intenzioni e portata?

Facciamo un esempio. C’è questa avvocatessa, Julia Davies. Una che, immaginiamo, non ha problemi a guadagnarsi il pane quotidiano e anche qualcosa in più. Julia è anche un’attivista, che qualche anno fa ha venduto la sua quota di Osprey Europe, il celebre marchio di abbigliamento e attrezzatura sportiva. Con un obiettivoutilizzare il ricavato per supportare gruppi impegnati nella tutela ambientale e acquistare porzioni di terra destinata in Inghilterra a fattorie e coltivazioni intensive. E riportarle lentamente allo stato selvaggio. A cominciare dalla regione del Dorset, dove ha acquistato 170 ettari di campi e prati che, gestiti dalla Dorset Wildlife Trust sono diventati un parco naturale in costante sviluppo. Non quindi comprare una terra per farla propria, ma per affidarla a fondi di conservazione e tutela che possano anche utilizzarla per ricavare denaro e far sì che i progetti siano sostenibili. O magari per ripagarla un giorno del suo “prestito”. Perché per un singolo proprietario privato è molto più facile acquistare la terra di quanto lo sia per un’organizzazione finalizzata alla sua tutela. Quindi l’idea è: prestare i soldi a un’associazione perché possa avviare le attività e ottenere a sua volta fondi pubblici (cui altrimenti non avrebbe accesso). Una volta ripagato il prestito, reinvestire quel denaro restituito per un’altra associazione. Un processo circolare che innesca meccanismi positivi e buone pratiche per la salvaguardia della natura.

Perché in ogni caso, che fossero pascoli, campi di grano, orzo o mais, le terre ritornano piano piano allo stato originario, con il graduale aumento di specie prima presenti e per lungo tempo scomparse dalla zona, come per esempio rane e tritoni, ma anche incoraggiate a tornare come zigoli gialli, farfalle Tabacco di Spagna e lucertole degli arbusti. L’habitat di molte specie è stato per troppo tempo invaso dalle attività umane di carattere intensivo – con molte delle conseguenze inquinanti che conosciamo – ed è il momento di porre un freno a questa avanzata, garantendo nuovamente spazi di sviluppo per chi questi territori li popolava prima dell’abuso umano. Da un lato si riduce l’inquinamento ambientale, dall’altro si ripristinano in maniera spontanea (senza quindi reintroduzioni programmate) fauna e flora selvatiche, contribuendo alla riduzione delle emissioni di gas serra. Senza contare le potenzialità nel creare nuovi posti di lavoro.

Chi in grande, chi in piccolo, le riforestazioni sostenute da privati sembrano funzionare: sono anche quelle che in inglese chiamano “small-scale rewilding”, ripristini della vita selvatica su piccola scala.Piccoli stagni, arbusti lungo le rive dei torrenti per favorire la presenza di avifauna specifica, nuovi piccoli alberi da salvaguardare dagli attacchi dei predatori che, per quanto naturali, rischiano di provocare effetti innaturali magari perché la loro popolazione è troppo numerosa. Sono solo alcuni esempi di quello che è di fatto un lavoro manuale, un esempio di impegni grandi e piccoli a seconda delle possibilità di ognuno, ma volti a un fine comune e a contenere conseguenze che, nella loro portata, purtroppo fanno pochi sconti sia ai grandi che ai piccoli.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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