Moby Prince: contro un altro muro di gomma la campagna #iosono141

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Era il 10 aprile 1991 quando nella rada del porto di Livorno il traghetto Moby Prince si scontrava con la petroliera Agip Abruzzo prendendo fuoco e lasciando un’unica certezza: 140 morti. La vicenda ha aggiunto l’ennesimo capitolo a quel libro di storia italiana che conta altre oscure pagine di cronaca che vanno dall’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin alla “tragedia” di Ustica, dal “sequestro” Moro alla lunga serie di stragi degli anni di Piombo che forse proseguano una modalità battezzata già nel dopo guerra con la strage di Portella della Ginestra. Oggi la stessa nebbia che ha avvolto in una sera d’aprile la rada del porto di Livorno è ancora densa e a diradarla non sono bastati 3 processi, 5 decreti di archiviazione e 2 inchieste giudiziarie con decine di migliaia di pagine con testimonianze, perizie, documenti fotografici e audiovisivi. Così dal bisogno di sapere la verità, o almeno di continuare a provarci, è nata la campagna #iosono141 che ha chiesto l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulla tragedia.

La strage del Moby Prince, infatti, non ha lasciato dietro di sé "140 vittime e nessun colpevole", ma ha raccolto oltre al dolore delle famiglie "la solidarietà e la partecipazione di tutti  coloro che si sono sentiti e continuano a sentirsi feriti da questa storia”. Si tratta principalmente delle tante persone che partecipano al gruppo facebook “Quelli che esigono la verità sul Moby Prince” e che ogni anno, il 10 aprile, arrivano a Livorno per chiedere verità e giustizia. Da questa consapevolezza è nata “#iosono141” la campagna permanente di sostegno alla lotta dei familiari delle vittime del Moby Prince che cerca con un appello pubblico di supportare l’azione congiunta dei familiari delle vittime per l’apertura di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla vicenda; di fare pressione sui testimoni diretti ed indiretti perché possano fornire ulteriori e più precise indicazioni sull’accaduto e di avvicinare un numero di persone crescente attorno a questa battaglia civile e giuridica. L’obiettivo? “Favorire la creazione di una massa critica di persone che chiedano la riapertura del caso con il capo di imputazione di strage dolosa”.

Il primo passo, se non verso la verità almeno verso una presa in carico politica della questione, è già avvenuto: dopo 24 anni la commissione Lavori Pubblici del Senato in aprile ha dato il primo via libera, all’unanimità, all’istituzione di una Commissione d’inchiesta sulla tragedia del Moby Prince. La commissione sarà con buona probabilità monocamerale e sarà istituita al Senato, ignorando la soluzione bicamerale chiesta dal figlio del comandante del Moby Luchino Chessa nella lettera aperta al Presidente del Consiglio Matteo Renzi del 2 aprile scorso e nella quale chiedeva poche ma decisive parole da parte del Premier :“apriamo gli archivi di Stato anche per il Moby Prince”. Per ora da Renzi nessuna risposta, ma si sa che i commissari avranno il difficile compito di provare a trovare la verità in 2 anni di indagini e con 60mila euro di budget per le consulenze esterne. 

L’obiettivo? Principalmente “chiarire i tempi di sopravvivenza minimi e massimi delle vittime” del traghetto, argomento cardine non affrontato dalla Procura di Livorno nell’inchiesta-bis del 2006 terminata con un’archiviazione e che potrebbe riaprire il caso smontando la tesi della morte rapida di tutte le 140 vittime, tesi che negava legittimità persino a quei dati tossicologici accertati sui corpi recuperati che indicavano invece l’eterogeneità della sopravvivenza a bordo, in alcuni casi pari ad “alcune ore”. La “morte rapida” è la base della mancata responsabilizzare del tardivo coordinamento dei soccorsi di quella sera. Ma la commissione d’inchiesta dovrà anche cercare di determinare la “verità storica” sulle “cause della collisione” tra il traghetto Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo, quindi posizione e orientamento della prua di quest’ultima, rotta del Moby Prince, condizioni di armamento ed eventi non ancora certi, ma possibili.

Per ora, anche se sessanta giorni dopo l’approvazione unanime in commissione Trasporti il Senato non ha ancora votato la proposta d’inchiesta parlamentare sulla tragedia del Moby Prince per un problema di “calendario d’aula intasato fino a settembre tra riforma Rai, scuola, codice sugli appalti, riforme istituzionali”, sembra possibile che il Parlamento legittimi a breve con la commissione almeno i dubbi dei familiari delle vittime che hanno risposto a questo stallo dell’iter con due azioni di pressione tutt’oggi senza risposta: oltre alla lettera aperta firmata da Chessa, è partita anche una mail bombing lanciata dal sito #IoSono141 all’indirizzo di Pietro Grasso, che sin dall’insediamento si è dichiarato vicino alla richiesta di giustizia dei familiari. Resta aperta la domanda se questa ennesima commissione parlamentare, la prima sulla tragedia del Moby, porterà o no a dei risultati veramente utili all’accertamento della verità o se si arenerà come è accaduto in passato ad altre illustri commissioni.

A volte l’impressione è che Pier Paolo Pasolini avesse ben intuito e perfettamente sintetizzato uno dei cancri italiani in un suo celebre commento sul Corriere della Sera alle stragi di Milano, Brescia e Bologna: “Io so i nomi dei responsabili […] Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
 Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”. Era il 14 novembre 1974. Da allora poco è cambiato anche per quanto riguarda la ricostruzione della più grande tragedia della marina civile italiana dal dopoguerra ad oggi o se preferite della più grave strage sul lavoro nella storia repubblicana, fino ad ora rimbalzata su un muro di gomma.

Alessandro Graziadei

Sono Alessandro, dal 1975 "sto" e "vado" come molti, ma attualmente "sto". Pubblicista, iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2009 e caporedattore per il portale Unimondo.org dal 2010, per anni andavo da Trento a Bologna, pendolare universitario, fino ad una laurea in storia contemporanea e da Trento a Rovereto, sempre a/r, dove imparavo la teoria della cooperazione allo sviluppo e della comunicazione con i corsi dell'Università della Pace e dei Popoli. Recidivo replicavo con un diploma in comunicazione e sviluppo del VIS tra Trento e Roma. In mezzo qualche esperienza di cooperazione internazionale e numerosi voli in America Latina. Ora a malincuore stanziale faccio viaggiare la mente aspettando le ferie per far muovere il resto di me. Sempre in lotta con la mia impronta ecologica, se posso vado a piedi (preferibilmente di corsa), vesto Patagonia, ”non mangio niente che abbia dei genitori", leggo e scrivo come molti soprattutto di ambiente, animali, diritti, doveri e “presunte sostenibilità”. Una mattina di maggio del 2015 mi hanno consegnato il premio giornalistico nazionale della Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue “Isabella Sturvi” finalizzato alla promozione del giornalismo sociale.

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