Incontro nazionale delle Acli: "Italiani si diventa"

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Premessa. Le ragioni di una scelta

Il nostro 43° Incontro nazionale di studi non si poteva sottrarre alla sollecitazione dei 150 anni dell’Unità italiana. Si tratta di una circostanza esterna che ha tuttavia un profondo legame con la nostra associazione. Non siamo storici rigorosi ma cittadini appassionati. La drammaticità dell’attuale crisi politica - che nasce dalla mancanza di una visione strategica prima ancora che da un conflitto tra leaders – ci spinge ancora di più ad affrontare questa tematica con un approccio di ampio respiro, con uno sguardo lungimirante nella speranza di poter dare un contributo significativo per uscire da questa impasse. Il tracollo della passata legislatura e la fine della travagliata esperienza dell’ultimo governo Prodi, così come l’implosione ormai evidente dell’attuale maggioranza berlusconiana ci dicono che le soluzioni finora trovate sono state incapaci di dare una vera prospettiva di futuro al nostro Paese. Nessuna fuga indietro, nessun “mito”nazionale, nessuna nostalgia. Come possiamo vivere un’appartenenza e rivitalizzare le ragioni del nostro essere insieme, con uno sguardo rivolto al futuro. Come possiamo spendere un’eredità che è anche un debito, come dice il titolo di questa sessione iniziale. Verso le generazioni passate ma ancora di più verso quelle future, alle quali dobbiamo consegnare il senso del cammino degli italiani e delle italiane. Vecchi e nuovi, nativi e stranieri sopraggiunti spinti dal bisogno o dalla speranza di trovare qui una “patria”. Cioè una terra accogliente, delle regole condivise, un disegno che si spinge verso il futuro e verso il bene comune.

1) Una nazione imperfetta

Possiamo riconoscerlo con franchezza. Stiamo celebrando i 150 anni dell’unificazione italiana nella consapevolezza di vivere in una nazione imperfetta. L’imperfezione italiana ha però anche dei tratti, diciamo così, tutti nostri, specifici del nostro perenne “deficit” identitario. Oggetto di diverse interpretazioni e diagnosi. Nazione incompiuta perché somma di individualismi personali e locali. Stato in perenne crisi di legittimazione e credibilità rispetto ad un popolo di anarco-individualisti. Istituzioni fragili per difetto di appassionamento civico. E da ultimo, storia di questi più recenti decenni, un sistema politico in transizione infinita, un tessuto sociale consumato dal logoramento dei legami, una sorta di smarrimento collettivo incrementato dalla crisi economica, dall’insicurezza diffusa sul futuro, dalla difficoltà di elaborare un progetto comune, una direzione verso cui andare, una visione dell’Italia che verrà.

Spetta a noi infatti portare a compimento un disegno unitario e condiviso. Spetta a noi “diventare italiani”, cioè riprendere in mano il cammino del Paese sentendoci protagonisti. La crisi in cui ci dibattiamo è spirituale non meno che materiale, di idee oltre che di risorse. Non tornano i conti ma non partono neanche i progetti. I sogni. Non ho paura di usare questa parola perché sappiamo che quando la si pronuncia insieme, in pubblico, mobilita una grande responsabilità e impegna alla concretezza della realizzazione. Alla fatica della credibilità, alle controprove della serietà. Quale Italia dunque sogniamo e vogliamo?

Un Paese forte delle proprie idee e delle proprie speranze, come ci invitano a fare anche le prossime Settimane sociali. L’Italia è stata così nei momenti più duri della sua storia. Ho citato prima gli anni del dopoguerra, della ricostruzione ma potremmo pensare anche a quelli del “miracolo economico”, dello slancio di una modernizzazione virtuosa e di una mobilità reale (anche se non priva di disarmonie sociali, pensiamo alle migrazioni interne), fino al progetto più recente che ridiede al Paese dopo il trauma della fine della Prima Repubblica l’energia per un ingresso convinto in quella Europa “casa comune” senza frontiere che fummo tra i primi a “immaginare”.

Un Paese che si lasci indietro l’”Italietta” della sopravvivenza e del “tirare a campare”, delle chiusure impaurite al mondo globale che ci entra in casa e ci porta aspiranti “nuovi italiani”, della dialettica politica ridotta a rissa permanente. Un’Italia che si prende troppo sul serio nelle cose sbagliate e che sottovaluta i segnali di un declino che soprattutto nelle giovani generazioni diventa sfiducia, precarietà, assenza di un progetto, chiusura degli spazi di responsabilità e di espressione dei talenti. “Diventare italiani” è allora una grande impresa comune che non riguarda solo la classe dirigente politica, perché ha come posta in gioco rimettere in moto le migliori energie della nostra società, le vocazioni dei territori, la partecipazione convinta alle forme della rappresentanza, la fiducia nelle istituzioni e il rispetto delle regole.

2) Il buonumore “ricchezza delle nazioni”

Diffidiamo del facile ottimismo, figlio di una politica fatta di spot e di marketing mediatico. La crisi che ci attraversa, insieme a tutto il mondo occidentale, da due anni a questa parte è reale e i segnali di ripresa sono flebili, intermittenti e soprattutto non cancellano le cifre allarmanti che coinvolgono l’economia reale, la vita delle persone, delle famiglie, dei lavoratori e dei giovani senza lavoro.

Vecchi e nuovi poveri si sommano e giustificano la nostra speciale attenzione alla lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Ne abbiamo parlato nell’ambito dell’Anno europeo a questo tema dedicato, abbiamo indicato anche con il nostro contributo la necessità di dare al Paese strumenti concreti di contrasto alla povertà che inspiegabilmente mancano dalle nostre politiche sociali. Ricordo solo a questo proposito la nostra proposta di correzione e integrazione della Social Card. Insomma, c’è poco da stare allegri in questa Italia al suo 150esimo compleanno. L’allegria stupida, l’allegria dell’euforia consumistica (poco praticabile per la verità di questi tempi dalle famiglie in difficoltà) la rifiutiamo. Ci sembra un segnale preoccupante di fuga dalla realtà.

Tuttavia, vorrei riflettere brevemente con voi sull’importanza del “buonumore”, cioè, alla lettera, di quell’umore che ci rende buoni, costruttivi e propositivi. Di quella spinta vitale autentica che “lavora” nella vita di una Paese. Prendo l’espressione da un recente intervento del giornalista Beppe Severgnini che sul Corriere della Sera rievocava, come hanno fatto in molti in questi mesi estivi politicamente travagliati, l’Italia del 1960. L’Italia delle Olimpiadi di Roma. Un Paese che aveva alle spalle ancora la durezza degli anni Cinquanta, un solo quindicennio dalla sconfitta rovinosa della guerra. Eppure in quella chance colse l’occasione per “inventare” le prime Olimpiadi globali, mediatiche e televisive. Era un Paese che diceva a se stesso e al mondo “che ce l’aveva fatta”.

Certo, la contrapposizione politica era forte, ma intanto – dice il giornalista - mentre si litigava si facevano “leggi, case e autostrade”. E’ vero, il PIL aumentava dell’8,3% ma non era questo che contava quanto la capacità degli italiani di “crederci”, di identificarsi con una storia che si percepiva in espansione. Forse è proprio questo che manca oggi. Una visione del Paese che sappia generare voglia di farcela, la rappresentazione sociale e l’elaborazione politica di una speranza reale. Così reale che se ne può scrivere un’”Agenda”, per ricordare di nuovo il prossimo appuntamento a Reggio Calabria. Tornerò subito sul ruolo specifico dei cattolici in questa riattivazione della speranza. Sentirsi protagonisti di un dinamismo comune. E’ di questo che hanno bisogno gli italiani per ritrovare il coraggio di scommettere sull’Italia, cioè su se stessi, sui propri talenti e sulla “tenuta” del sistema-Paese in grado di competere sullo scenario globale, al passo con la velocità e le accelerazioni della post-modernità. Senza “darwinismi sociali” e divaricazioni crescenti tra vincitori e vinti, tornanti conflitti irriducibili tra “capitale” e “lavoro” (la vicenda di Fiat a Melfi insegna…), nell’inasprimento di visioni parziali e di chiusure senza sbocchi. E’ l’effetto della crisi ma anche di una povertà di progetti, di visioni, di idee. Insomma, di politica.

3) Cattolici senza Patria?

Nel voler dare il nostro contributo di associazione di laici cristiani a questa sorta di “discorso sulla nazione” che è nel cuore dei 150 anni, non possiamo mettere tra parentesi la nostra identità di cattolici organizzati. Lo chiede la specificità della storia italiana dove la “questione cattolica” si impone con tratti del tutto peculiari, fin dal processo di unificazione, ma poi giù lungo la linea di tutta la vicenda nazionale. Fino ai nostri giorni. E’ delle ultime settimane una serrata discussione sui “cattolici nella politica” nata da un’analisi di

Giuseppe De Rita, che evocava l’annoso e attuale problema della rilevanza e dell’incidenza del mondo cattolico sulla scena pubblica. Il direttore del Censis in sostanza osservava come ad una vivace e consistente (anche sul piano dei numeri) presenza dei cattolici nel tessuto sociale, alla “fenomenologia quotidiana del popolo cattolico” e alla sua “quotidiana capacità di produrre significative relazioni interpersonali e una tendenziale vita comunitaria” a fianco soprattutto degli emarginati, degli svantaggiati, delle “solitudini” materiali e morali prodotte dallo sfilacciamento dei legami non corrisponda un’adeguata incisività politica.

Vorrei soltanto fare alcune sottolineature. Anzitutto: il tema dell’unità nazionale. L’unificazione italiana è un processo storico che “celebriamo”, ma soprattutto l’unità che ri-affermiamo come idea-guida sentendone la fragilità storica e politica, è per i cattolici un valore spirituale. L’unità di un popolo e di una nazione è unità di intenti, armonia di interessi ricomposti, superamento dell’individualismo, destino comune frutto di pratiche buone e virtuose. Non omologazione ma armonizzazione, non mortificazione delle diversità ma condivisione di progetti e visioni. Insomma, unità dei “cuori” in senso biblico, radice interiore di scelte e comportamenti esteriori. Viene prima delle forme organizzate politico-partitiche. In breve: per i credenti l’unità è manifestazione tangibile della comunione e questa, a sua volta, non solo non nega ma presuppone la pluralità . Con questo spirito come cattolici possiamo impegnarci contestualmente per l’unità del Paese, per la sua coesione sociale, e per il riconoscimento di un pluralismo che è all’origine della nazione italiana e suo tratto distintivo. Questo è il senso più profondo del federalismo solidale, del federalismo che vogliamo.

Ancora una riflessione vale la pena di fare per meglio identificare non “dove” si collocano i cattolici ma assai più significativamente “come” e perché, con quali specifiche ragioni si impegnano nella vita di questo Paese. E dobbiamo tornare a parlare di speranza. Quella vera nasce dalla promessa che le vicende umane e storiche hanno un senso, che l’uomo non è – come voleva Sartre – una “passione inutile”e che non è della morte l’ultima parola.

4) Unità e federalismo. Per una democrazia della prossimità

“Unità, federalismo, solidarietà” non sono un trittico rassicurante, ma configurano un forte impulso alle riforme istituzionali e al riassetto politico del sistema Paese. L’Italia ha infatti urgente bisogno anche di una scossa per risvegliarsi dal torpore collettivo e dal degrado della stessa vita democratica in cui rischia di precipitare. Una via di uscita dal recinto bloccato della “seconda Repubblica” può essere appunto la riforma federale dello Stato da realizzarsi non come un’ipotesi-feticcio né come un sogno idolatrico alla maniera leghista, per intenderci, ma come prospettiva di sussidiarietà e di coesione sociale e, in questo senso, erede del popolarismo e del municipalismo sturziano.

Da molti anni in effetti ci stiamo domandando quale sia la riforma giusta che possa ridare slancio al Belpaese, che appare sempre più stanco ed in affanno. In particolare da oltre un decennio ci si è concentrati sulla forma dello Stato, a partire dalla riforma del titolo V della Costituzione, per poi giungere alla proposta di un vero e proprio modello federale. A 150 anni dalla nascita dello Stato unitario è questo un passaggio epocale, che potrebbe ridisegnare il patto generativo e finalmente mostrare quel progetto comune verso il futuro che ho già richiamato come intento che anima dall’interno questo nostro Incontro di studi. Ma qui occorre essere molto chiari. Se per alcuni parlare di federalismo significa lavorare per il superamento dell’Italia unita, o per una sua autolesionistica e anacronistica frammentazione, per le Acli questa sfida assume connotati completamente differenti, opposti, e va raccolta a patto che ci si collochi su un preciso modello federale. Ne voglio esplicitare le coordinate.

Una riforma dello Stato in senso federale ha senso solo se serve a rafforzare i diritti di cittadinanza di tutti gli italiani, senza eccezioni. Ridurre gli sprechi e differenziare i modelli organizzativi della pubblica amministrazione e del welfare nei diversi contesti è un obiettivo doveroso, ma non può in nessun modo voler dire creare cittadini di serie A o B. E’ necessario che regole precise impediscano pericolosi scivolamenti in tale direzione e che un chiaro patto solidale presieda ogni scelta di suddivisione delle risorse. I diritti fondamentali della salute, del lavoro, dell’istruzione devono essere garantiti per ogni cittadino, indipendentemente dal comune e dal territorio di residenza. Inoltre, forte della specificità della storia italiana, il federalismo per il nostro Paese deve ancorarsi non ad astratte e chiuse identità regionali (né, tanto meno, ad improbabili macroregioni), ma ai territori, alle città, ai borghi. Questo federalismo – a lungo negato dall’ordinamento centralistico – è il solo che possa far rinascere la partecipazione, l’orgoglio di appartenenza, la responsabilità individuale e comunitaria. Non si limita a moltiplicare i centri di potere ma è capace di ampliare gli spazi di partecipazione e coinvolgimento dei cittadini e delle associazioni, garantendo così trasparenza, controllo e democrazia, di cui oggi si sente il bisogno non solo nei palazzi romani, ma in tutta la politica e la pubblica amministrazione. Il federalismo solidale è insomma per noi un autentico processo rifondativo del Paese che potrebbe innescare un nuovo patto tra tutte le forze vitali dei territori, aggregando e sviluppando legami di solidarietà, imprenditività, cooperazione. La crisi economica che stiamo attraversando, infatti, ci mostra come sia indispensabile una responsabilità sociale diffusa per garantire uno sviluppo solido per tutti, in grado di durare nel tempo e di essere pienamente sostenibile.

In questa prospettiva il federalismo, lungi dal ricadere in una angusta visione localistica o peggio in un neo-centralismo regionale, diviene il primo passo di un nuovo modello di sviluppo che apra al confronto con i nostri partner europei e internazionali. Le reti territoriali – come le sperimentazioni di alcuni distretti ci dimostrano – sono la vera carta da giocare nel mercato globale, che non può chiudersi in anacronistici protezionismi. Se si avrà il coraggio di dirigersi davvero in questa direzione non solo non si tradirà la storia dell’Italia, ma al contrario si darà piena attuazione a valori quali il municipalismo di Sturzo o la democrazia sociale di Aldo Moro, troppo a lungo trascurati e disattesi, offrendo finalmente risposte concrete ai cittadini. Se invece dovesse prevalere come modello la politica di queste ore e settimane, l’annunciata riforma federale dello Stato finirebbe per tradursi in uno sciagurato “tutti contro tutti” di cui l’Italia non ha veramente alcun bisogno.

Lo diciamo perciò a chiare lettere e con coraggio civile: il federalismo solidale non deve incutere paura ma è da sperimentare come banco di prova per la riforma dello Stato, la più condivisa possibile, perché essa deve diventare il “foedus” che unisce tutti, ossia il nuovo patto civile degli italiani. Un patto che può assumere la forma di una democrazia della prossimità dove lo Stato nazionale non solo è presente ma è vicino ai cittadini e alle comunità locali. «Il federalismo, per noi, è la forma istituzionale che meglio può favorire oggi l’unità di un Paese sempre più articolato e ricco di diversità» aggiungendo che esso” può essere oggi la nuova frontiera del meridionalismo». Affermazione davvero anticipatrice e lungimirante.

Una visione coraggiosa che è stata ribadita anche nel più recente documento dei Vescovi «Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno» laddove si legge: “la prospettiva di riarticolare l'assetto del Paese in senso federale costituirebbe una sconfitta per tutti, se il federalismo accentuasse la distanza tra le diverse parti d’Italia.” Un sano federalismo rappresenterebbe una sfida anche per il Mezzogiorno, stimolandone le pratiche virtuose di autopromozione, di governo, di socialità, e potrebbe finalmente derubricare la “questione meridionale” come questione parziale rivelandola quale essa è, nella sua dimensione nazionale. La stessa corretta applicazione del federalismo fiscale non sarà sufficiente a porre rimedio al divario nel livello dei redditi, nell'occupazione, nelle dotazioni produttive, infrastrutturali e civili. L'impegno dello Stato deve invece rimanere intatto nei confronti dei diritti fondamentali delle persone per evitare che si creino diritti di cittadinanza differenziati a seconda dell'appartenenza regionale, discriminando gli italiani in modo inaccettabile. Mentre le differenze sono una ricchezza dell’identità nazionale, le disparità sono una ferita diretta al patriottismo costituzionale. A partire dal terreno della legalità.

Che la mafia abbia rialzato la testa – e non solo nel Mezzogiorno – lo abbiamo visto qualche giorno fa con l’omicidio, in pieno stile camorristico, di Angelo Vassallo, sindaco di Pollica. Finché non sarà assicurato il ripristino della legalità nel Sud e nel Nord del nostro Paese sarà impossibile sperare in un’ Italia migliore. Tanti servitori dello Stato hanno scritto pagine splendide di identità nazionale, di difesa della dignità dei cittadini nella lotta contro ogni tipo di mafia e di cultura mafiosa. Ne sentiremo parlare nella sessione di domani pomeriggio da testimoni privilegiati.

Angelo Vassallo era un sindaco pescatore, molto vicino alla popolazione e geloso dell’autonomia locale. Nel suo ultimo articolo aveva scritto che la vera ricchezza è il luogo in cui si vive: «l’Italia siamo noi, la somma dei comuni e il danno della politica a livello nazionale è che non conosce i territori e non sa più ascoltare. Noi non vogliamo niente dallo Stato, ma almeno ci lasci le nostre cose».

Come sappiamo lo scorso 29 aprile è stata approvata definitivamente dal Senato la legge sul federalismo fiscale. L'obiettivo perseguito è garantire 1'autonomia delle entrate e delle spese degli enti territoriali - Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni - salvaguardando i principi di solidarietà e di coesione sociale. Il cammino per arrivare all’attuazione della legge sul federalismo è ancora lungo, complesso e lascia aperti molti interrogativi. È prevedibile che i tempi di attuazione - due anni per i decreti attuativi, cinque anni per il fondo perequativo – saranno probabilmente più lunghi di quelli previsti. Ha scritto il gesuita Michele Simone su “Civiltà cattolica” che un elemento positivo e di buon auspicio è il fatto che «il testo sia stato, in un certo senso, concordato tra maggioranza e opposizione, tanto che il Pd si è astenuto e Italia dei valori ha votato a favore. È un atteggiamento parlamentare da salvaguardare per le urgenti riforme di cui il Paese ha bisogno: abolizione delle Province, Senato delle autonomie, riduzione drastica del numero dei parlamentari e, in genere, della «classe politica» anche locale. Se tutto il Paese comprende che queste sono problematiche nazionali, il federalismo fiscale è una grande scelta, se avviene il contrario, nel breve periodo il divario Nord-Sud si allarga e nel lungo diventa incolmabile quello tra Italia, Europa e mondo globalizzato».

Ma c’è ancora una dimensione che vorrei indicare e che riguarda la connessione tra il federalismo e la prospettiva “poliarchica” del bene comune. Dare valore positivo ad un assetto sociale poliarchico (e dunque non “monarchico”), equivale a sostenere che la vita sociale corre un grave rischio ogni qual volta essa è posta sotto un solo potere.

5) Diventare italiani, sentirsi cittadini

Per “diventare italiani” bisogna anzitutto sentirsi cittadini. Può sembrare una ovvietà ma chiunque conosca la storia italiana antica e recente sa che si tratta di una questione seria, che non investe solo il tema dei diritti e delle regole, del quadro normativo e delle istituzioni. Mi pare sia un problema più antropologico che sociologico. Riguarda la vita profonda del nostro Paese, la difficoltà che ritorna più volte a far emergere da un popolo di individualisti, magari “di genio” (il famoso “stile italiano” nel mondo noto più per la qualità estetica che per la coerenza etica) una comunità concorde e animata da una stessa passione civica.

La cittadinanza come qualità della partecipazione alla vita sociale è di quelle che si apprendono, a partire innanzitutto dal contesto familiare, e che richiedono una volontà comune – culturale, politica e istituzionale – a trasmettere alle generazioni il senso di una storia condivisa, di un comune alfabeto civile. Naturalmente, non si tratta di rievocare l’ombra sinistra dello Stato etico o del patriottismo indottrinante.

Piuttosto si tratta, ancora una volta, di trasmettere anzitutto ai giovani una fiducia: che si possa stare nella vita da protagonisti. Che spendere i propri talenti non è questione di “successo” individuale ma di crescita collettiva. Che l’avarizia o lo spreco delle risorse personali non è dissipazione che mortifica il singolo ma sottrazione alla comunità di potenzialità di crescita. Il valore aggiunto dello stare insieme è certamente il cuore del civile organizzato. Dunque spetta alla società civile un compito specifico nella promozione di questa cittadinanza che ci fa essere italiani, e non genericamente “cittadini”. E’ una responsabilità che parte dalla prossimità dei legami e degli impegni per contaminare positivamente un cerchio sempre più ampio di relazioni, contesti, orizzonti.

La politicità del civile non è una vuota formula se si sostanzia di questa ambizione e di questa responsabilità: essere una palestra di pratiche democratiche, di impegno per la comunità. La società civile del nostro Paese è certo tra le più vivaci dell’Europa e può, dunque deve svolgere un compito essenziale perché l’Italia, a questo punto della sua storia e della sua biografia, possa aprire una pagina nuova e rinnovata di vita democratica. Tutti sappiamo che le sfide del presente – ne parleremo nell’ultimo giorno del nostro Incontro- non solo sono “inedite” (è diventato un luogo comune ricordarlo ed è così per ogni stagione della storia!) – ma richiedono un “di più” di passione civile per essere affrontate e vinte. Ritrovare lo “sguardo lungo” della politica non è in questo senso un compito di alcuni, di una “aristocrazia” del pensiero o del denaro. E’ un compito di tutti.

La presente relazione è stata accorciata in alcuni passaggi da Unimondo per renderlo più fruibile via web

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