Allevamenti intensivi e ripristino degli ecosistemi: una strana alleanza

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Foto: Pixabay.com

L’Amazzonia si riduce a vista d’occhio. Occorre fare spazio ai ranch del bestiame, l’allevamento garantisce maggior reddito e in minor tempo e sono gli stessi contadini impoveriti ad appiccare incendi e tagliare alberi secolari per spianare la strada alle attività intensive. È una situazione complessa, che chiama condanne facili e al contempo analisi intricate sulle cause che determinano questi esiti, che sono solo quelli visibili. Perché a pochi chilometri di distanza c’è un’altra foresta in grande sofferenza, meno nota, che ha a che fare con un altro tipo di allevamento: quello dei gamberi.

Come l’Amazzonia, le paludi di mangrovia sono uno dei più ricchi ecosistemi del pianeta, brulicanti di pesci tropicali e uccelli come la spatola rosata. Ma gli allevamenti di gamberi affollano le coste con scarti di vario genere, che asfissiano le mangrovie. Quella dell’acquacultura è infatti una delle industrie alimentari a più rapida crescita, spesso favorita da investimenti governativi e in forte sviluppo a spese della salute delle aree costiere per far posto ad allevamenti di pesci, alghe e crostacei.

Anche se può sembrare ossimorico, c’è anche chi però vede un’opportunità in questa compromissione degli ecosistemi costieri, e anzi auspica una collaborazione tra i conservatori della natura e i “contadini del mare”, soprattutto in quelle aree che non sono così pure e incontaminate come l’Amazzonia. Molluschi e alghe sono raccolti redditizi, ma sono anche specie viventi che, in alcune aree del mondo, non esistono più o sono in via di sparizione. Ecco perché una coalizione che mette in campo portatori di interesse di ambito politico, scientifico, industriale e della tutela ambientale sta elaborando un piano di “acquacoltura di ripristino” come un modo per utilizzare la crescente domanda di frutti di mare al fine di recuperare habitat costieri non più in salute.

È un’industria che crescerà in ogni caso, quindi… come possiamo direzionarne la crescita in modo che sia il più sostenibile possibile?”. È la domanda che si pone Robert Jones, referente per l’acquacultura di Nature Conservancy, che sta valutando la percorribilità di questa strada che, tra gli altri, coinvolge attori come la Banca Mondiale, l’Università del New England, il WWF e la FAO. Un percorso con più attori che potrebbe rappresentare un modo per creare posti di lavoro e al contempo ricostituire le barriere di ostriche e altri habitatandati perduti negli ultimi anni. Una prospettiva che ha comunque dei costi ambientali, e che rende comprensibilmente scettici coloro che sostengono l’improbabile utopia di espandere un allevamento industriale senza provocare danni alla natura.

Anche alla luce del documento introdotto quest’anno (Ocean-Based Climate Solutions Act), l’idea è quella di accogliere opportunità, sfide e innovazioni che possano rendere l’acquacultura uno strumento per ricostruire gli ecosistemi costieri, tra i quali per esempio la costa orientale degli Stati Uniti. Un progetto ambizioso ma anche costoso, che tra l’altro non garantisce che esemplari di allevamento abbiano le stesse potenzialità riproduttive e ricostruttive di esemplari selvatici (come per l’appunto nel caso delle ostriche). Resta però un’ipotesi da vagliare per alcuni aspetti che potrebbero garantire comunque un tornaconto ambientale: la tridimensionalità degli allevamenti che garantisce nascondigli e spazi per lo sviluppo di altre forme di vita connesse a quelle allevate (pesci, molluschi, piante) o la capacità di rimuovere percentuali significative di azoto in eccesso.

Non si tratta in ogni caso di una prospettiva facile da attuare: le aziende dovrebbero ragionare nell’impostazione degli allevamenti operando scelte di concerto con gli obiettivi di conservazione, che non sono evidentemente quasi mai gli stessi del mercato. La domanda è spesso rivolta a grandi quantità di prodotti simili, aspetto che non coincide con la naturale commistione di vite che rappresentano gli habitat; l’importazione di batteri e parassiti alloctoni richiedono l’utilizzo di prodotti chimici per difendere i raccolti; o ancora l’utilizzo in alcuni casi massivo di reti e plastiche che poi restano inevitabilmente abbandonati in mare aumentano notevolmente i pericoli che conosciamo nei confronti di altre specie (tartarughe, mammiferi, etc.). La perplessità più ingombrante è che quella che in teoria potrebbe essere un’alleanza auspicabile, in pratica non riesca a realizzarsi a causa delle dinamiche in gioco e dell’imperativo al profitto che regna sovrano.

Il rischio è concreto: quello di riprodurre sott’acqua le conseguenze già avveratesi sulla terra, con le evidenti difficoltà del riuscire poi a porvi rimedio – ammesso che ne esista la volontà. Tenendo conto poi che molluschi come le ostriche sono comunque un bene di lusso, potrebbe essere interessante vagliare altre strade, come per esempio quella di favorire una transizione verso diete più sostenibili. Se questa strada sarà percorsa sarà in ogni caso una strada di compromessi, che incrocia i destini degli allevatori, delle specie viventi coinvolte e della salute stessa degli oceani, ma come spesso accade inciampa di fronte al significato delle parole: l’interpretazione di quello che potrebbe voler dire “ripristino” è un nodo fondamentale da sciogliere prima di agire. 

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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