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Il modello Milano, oltre le inchieste
Cittadinanza
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Foto: Unsplash.com
Le inchieste sulla gestione dell’urbanistica e dell’edilizia a Milano hanno portato in primo piano il tema del governo delle trasformazioni urbane. È l’occasione per fare il punto criticamente, al di là dei risvolti giudiziari, sul cosiddetto «modello Milano» di governo urbano.
La riduzione giudiziaria dei fenomeni sociali e politici è fenomeno ormai consolidato in Italia e non è tanto funzione delle caratteristiche dell’azione giudiziaria, bensì soprattutto dei gravissimi deficit degli attori politici e culturali nel politicizzarequestioni che, appunto, finiscono per politicizzarsi solo per via giudiziaria. Se invece la questione milanese intendiamo politicizzarla, possiamo muovere da diverse prospettive.
Prima di tutto, si tratta di capire chi ci ha guadagnato, da un modello di sviluppo basato sulla valorizzazione immobiliare, quali gruppi sociali sono stati coinvolti e quali esclusi. Per poi approfondire il modello di governo che ha reso possibile tutto ciò nella fase post–expo, e le possibili alternative in campo.
Vincenti e perdenti del modello Milano
La prima prospettiva, ormai consolidata, è quella relativa al modello di sviluppo – o meglio dire di accumulazione – della città e degli squilibri distributivi che ha generato. Si tratta di un modello nel quale l’accumulazione per via fondiaria e immobiliare ha assunto un peso crescente fino a diventare il principale fattore strutturante dell’intera economia urbana (e più precisamente il fattore cui gli altri settori economici devono pagare un contributo crescente). Un modello che vede alcuni gruppi sociali vincenti, altri naturalmente perdenti, e nel mezzo una sempre più difficile definizione di cosa sia l’interesse pubblico, o meglio collettivo.
Fra i vincenti vi sono sicuramente le élite economiche e finanziarie che si sono riposizionate a presidio di quello che David Harvey definisce quale il secondo circuito del capitale, ovvero quello immobiliare, ma anche una parte cospicua di ceti medi e superiori che, in modi diversi, hanno potuto partecipare agli imponenti processi di valorizzazione immobiliare che si sono prodotti in questi due decenni. Infatti, il grande capitale organizzato non è come ovvio l’unico attore di questa fase dell’evoluzione di Milano, pensarlo è errore comune di rappresentazioni manichee di come si sia strutturata questa fase della traiettoria della città (e delle città). La proprietà diffusa, e in particolare quella di valore elevata concentrata fra i ceti medi e superiori che a Milano hanno un peso specifico ben più rilevante che altrove, rappresenta il lato tribunizio, di massa, di questo modello di accumulazione. Com’è ovvio, pensare che il 70% delle famiglie residenti in proprietà siano tutte parte dei vincenti, e soprattutto vincenti nello stesso modo, è infondato: fra gli stessi proprietari, a Milano e ancor di più fra questa e la sua area metropolitana, le diseguaglianze si sono allargate, complice anche un sistema fiscale che programmaticamente ignora le dinamiche di mercato.
Tuttavia, non si può non considerare il vantaggio economico e simbolico che parte dei ceti medi e superiori locali hanno tratto da questa fase del capitalismo urbano. Al di là dei vantaggi finanziari, l’immaginario di una città moderna, di fatto tendenzialmente esclusiva ma simbolicamente attraente perché tecnologicamente avanzata, sostenibile alla micro-scala dell’alloggio o del vicinato, e che assicura una persistente valorizzazione degli investimenti ha avuto e tuttora esercita un forte carica egemonica su un ampio spettro di classi sociali. Ed è tale carica egemonica a rendere sempre complessa la visibilizzazione delle implicazioni negative di tale modello, anche per i ceti che ne traggono qualche vantaggio finanziario immediato...