La palestra di Mohammed Alì a New York apre ai ragazzi di strada

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Foto: Unsplash.com

Su quel ring ad allenarsi è salito Mohammed Alì. Leggenda. E la lista potrebbe continuare con altri che lo sono altrettanto. Tipo Jake LaMotta, che poi si chiamava Giacobbe, papà giunto a New York da Messina, il «Toro Scatenato» raccontato in un film epico da Martin Scorsese e Robert De Niro. E ancora Roberto «Mani di Pietra» Duran, altro immigrato, lui da Panama. E Larry Holmes, Hector Camacho, Julio Chavez, Tommy Hearns. Anche italiani o italo americani, come Vito Antuofermo e ultimamente Paulie Malignaggi. Ci è stato pure Mike Tyson.

La storia del pugilato è passata da lì. Su quei muri si contano foto di quasi 140 campioni mondiali. Questa è la Gleason’s Gym, luogo di culto per chi ama la boxe e quello che ci gira intorno, oggi a Dumbo (acronimo di Down Under Manhattan Bridge Overpass, sotto il ponte di Manhattan), quartiere di Brooklyn, pochi metri dal luogo immortalato da Sergio Leone nella locandina di C’era una volta in America, ma fondata nel 1937 nel Bronx da un immigrato giunto dall’Italia, Roberto Gagliardi. Gli italiani non vivevano però bei momenti in quel periodo e in quella zona, rifugio anche di irlandesi e tedeschi. Scelse di cambiarsi il cognome in Gleason, come un pugile irlandese della palestra: «Il nome no, quello va bene». Ma lo rese più americano, Bobby. Si pagavano due dollari al mese per frequentarla. Per mantenersi Bobby faceva il tassista di notte. Se si vuole tornare alle origini della boxe e dei suoi valori basta salire quei sei gradini che la separano da Water Street ed entrare nell’indiscusso tempio del pugilato. Gagliardi trasferì la palestra a Manhattan e la guidò sino quasi a novanta anni.

Oggi il proprietario è Bruce Silvergrade. Con lui la Gleason’s Gym ha aperto alle donne nel 1983 e a interventi sociali importanti, come allenamenti specifici per i malati di Parkinson o gratuità per i veterani di guerra. In particolare, ha fondato un programma per ragazzi di strada diventato un punto di riferimento nei quasi trenta anni di attività. Tutto è nato da un senso di gratitudine. Racconta Silvergrade nel suo ufficio con vetri sui ring della palestra: «Io e i miei partner volevamo rendere alla comunità quanto avevamo ricevuto. Eravamo famosi e la palestra stava andando molto bene». Pensarono di tornare alle radici sociali della boxe: «Un programma per ragazzi e ragazze svantaggiati, specie con problemi economici che non potevano permettersi di frequentare una palestra». 

Lo hanno chiamato Gakad, acronimo del nome del progetto: «Give a Kid a Dream». Perché in fondo si tratta davvero di regalare un sogno a giovani (età dai 13 ai 18 anni) che mai avrebbero potuto nemmeno pensare di realizzarlo. Le segnalazioni arrivano da enti sociali, polizia, luoghi di detenzione minorile, famiglie stesse: «Il programma è limitato a 30 ragazzi alla volta. Quando qualcuno esce entrano altri e lo stesso accade quando compiono 18 anni. L’educazione è importante tanto quanto l’allenamento. Monitoriamo il loro lavoro a scuola e verifichiamo che migliorino. Abbiamo dei tutor che li seguono nello studio. Poi inseriamo la parte fisica con la boxe. Non cerchiamo i prossimi campioni del mondo, ma trasmettiamo la disciplina e i valori del pugilato per aiutarli a essere uomini e crescere nella vita». 

Gakad costa più di 150 mila dollari all’anno, finanziato dalla Gleason’s anche attraverso donazioni e crowdfunding. Perry D’Alessio è uno dei manager: «La maggior parte dei ragazzi hanno avuto esperienze traumatiche. Arrivano dal sistema penale, mamme single, famiglie affidatarie o distrutte. Una volta inseriti qui lavoriamo per farli allenare e aumentare la fiducia in loro stessi, mostrando che sono ragazzi straordinari solamente finiti in una brutta situazione».

Alcuni poi riescono ad andare all’università, anche con borse di studio. Oltre il 75 per cento dei ragazzi si diploma o si laurea, trovando poi un posto di lavoro. Aiuta anche il fascino di un luogo mitico, come sa Silvergrade: «È grazie al successo della palestra e alla sua reputazione che riusciamo ad attrarre i giovani». Dice Michael: «È fantastico perché pensi: Alì è salito su questo ring, ha colpito questa sacca». E Tommy: «Tutti questi campioni si sono allenati qui. È la più bella sensazione. Hanno lavorato sodo, posso farlo anche io, essere come loro». Michael oggi fa da tutor dopo essere passato dal programma: «Give a Kid a Dream mi ha aiutato a stare alla larga dalla strada, quando mia mamma è morta. Ho fatto molto per essere un cattivo ragazzo. Praticamente la boxe mi ha salvato la vita. Mi piace ora aiutare altri ragazzi a uscirne».

Claudio Arrigoni da Corriere.it

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