Il sacro luogo dove la vita finisce…

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Lo so, siamo totalmente fuori stagione. L’estate non è tempo di alci, di climi artici e di circoli polari. Purtroppo però, il tempo per tenere alta l’allerta su questioni con rilevanti ricadute globali è sempre quello giusto. Il fatto che pochi mesi fa il Congresso Americano abbia approvato una misura che autorizza allo sfruttamento di alcune tra le più delicate regioni dell’Arctic National Wildlife Refuge per l‘estrazione del petrolio… è una di quelle. Una decisione che espone a rischi di gravi devastazioni un paesaggio di fragile e delicata bellezza, per nulla accompagnata da un auentico dibattito pubblico sul tema. Risultato: sono in pochi a rendersi conto che una delle zone protette istituite oltre mezzo secolo fa dal presidente Eisenhower si trova ora in grave pericolo. L’area è probabilmente il più selvaggio e intatto angolo d’America, dove ancora vivono orsi polari, caribou, buoi muschiati e milioni di uccelli migratori, onorato dal popolo Gwich’in come “il sacro luogo dove la vita ha inizio”. Difendere quest’area non è solo una questione politica o culturale di questo periodo, ma è il risultato di decenni di campagne per tutelare le terre pubbliche, una lotta per i diritti umani e lo sforzo per proteggere l’intero pianeta dagli impatti sui cambiamenti climatici provocati dai combustibili fossili – argomento a cui, lo sappiamo purtroppo molto bene, president Trump non è per nulla sensibile.

La sfida per tutelare uno degli ultimi baluardi di biodiversità è una cordata di voci e associazioni sostenute anche dal marchio Patagonia che, com’è noto, supporta concretamente con iniziative e finanziamenti chi si batte per la difesa dell’ambiente. In questo caso la battaglia non è appena iniziata né è giunta a una conclusione, ma è di certo a una svolta decisiva: la diffusione di informazioni passate sotto silenzio che, se non rese note in maniera sufficientemente chiara e capillare e se non accompagnate da azioni convinte, rischiano di distruggere in maniera irreversibile non solo parte del patrimonio culturale di un popolo, ma anche la biodiversità che lo tiene in vita. Si tratta di “diritti inalienabili”, come dichiara Bernadette Demientieff, direttrice del Gwich’in Steering Committee, che si riferisce a questa battaglia come a una necessità “non negoziabile”: in una delle leggende fondanti dell’identità del popolo Gwich’in, le persone erano caribou. Quando si separarono, i caribou mantennero una parte del cuore umano, e gli umani una parte del cuore dei caribou: un distacco suggellato dalla promessa di prendersi reciprocamente cura gli uni degli altri. Una ragione futile e trascurabile per le logiche del profitto che non guardano in volto nessuno e non tengono in nessun conto l’importanza delle radici per ciascuno di noi, non solo per i popoli indigeniI buoi muschiati, per esempio, hanno popolato queste zone fin dal Pleistocene: assieme ai caribou sono gli unici ungulati sopravvissuti alla fine di quell’era (10.000 anni fa) e oggi ancora pascolano in queste tundre sconfinate in cerca di vegetazione che cresca sopra o sotto la neve.

L’approvazione di questo documento sulle imposte, altamente impopolare, che apre possibilità gravissime alle peforazioni petrolifere in quest’area protetta, è un attacco frontale ai diritti umani dei popoli indigeni e determina un pericoloso precedente che dice molto sul modo in cui intendiamo trattare quei pochi ecosistemi rimasti pressoché intatti sul nostro Pianeta”, considera Daazhraii Johnson, scrittrice e attrice Gwich’in. E prosegue: “Ciascuno di noi deve alzare la voce per difendere la qualità di acqua, aria e terre, che sono gli elementi che sostengono la vita della nostra Madre terra. Continuiamo a ignorare il monito dei nostri antenati per la tutela di questa terra, che per anni ci ha dato da vivere.”

La loro storia è raccontata in un cortometraggio, The Refuge, che segue due donne Gwich’in nella loro pluriennale lotta per la difesa e la sopravvivenza del loro popolo. Un punto di vista condiviso anche da Andy Moderow, direttore dell’Alaska Wilderness League: “Si vende questo parco naturale al miglior offerente. Se lo sviluppo dell’industria petrolifera distruggerà una delle ultime aree selvagge d’America, non c’è dubbio che il giudizio della storia si abbatterà feroce. Il nostro impegno quotidiano per proteggere queste terre diventa sempre più intenso, non solo per chi queste terre le abita oggi, ma anche per le generazioni che lo faranno domani”.

Ed è una riflessione che meriterebbe decisamente attenzione, oltre che sostegno all’azione, anche dal mondo della politica: l’Arctic Refuge è una splendida opportunità per un turismo sostenibile e a basso impatto, che ospita escursionisti, campeggiatori e pescatori. Un’occasione per staccare dalla realtà di ogni giorno (qui non c’è copertura per i cellulari) e immergersi nella natura più selvaggia e spettacolare. Cose che, purtroppo, sono per troppi molto meno affascinanti rispetto all’imponente archittettura delle stazioni petrolifere e all’inebriante profumo del denaro.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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