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Siamo certi che la “sicurezza” sia quella immaginata dal governo Meloni?
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Foto: Unsplash.com
Va bene: la sicurezza è un valore imprescindibile in ogni democrazia. Ma siamo certi che la “sicurezza” sia quella immaginata dal governo Meloni e proposta ora come futura legge della Repubblica? Soprattutto, vogliamo davvero che in nome della democrazia vengano meno le libertà individuali e collettive, venga messa a tacere ogni forma di dissenso e protesta pacifica?
Non sono domande retoriche. È problema concreto quello che dobbiamo affrontare, perché il disegno di legge sulla sicurezza, approvato già alla Camera e fra poco in discussione al Senato, rischia di trasformarsi in un punto di svolta preoccupante nella nostra storia repubblicana. Il governo Meloni dice che queste misure sono necessarie per garantire la sicurezza pubblica. Chi ama la democrazia – e tenta di difenderla – si interroga e purtroppo si risponde, sulle reali conseguenze che questi provvedimenti avranno sui diritti civili e sulle libertà fondamentali, individuali e collettive.
Le disposizioni previste dal disegno di legge, come l’inasprimento delle pene per reati legati alla sicurezza e l’ampliamento dei poteri di polizia, pongono seri interrogativi sulla proporzionalità e sulla necessità di tali misure. Poi, a preoccupare è che questa legge soffoca il diritto di manifestazione e di espressione del dissenso. Le norme prevedono sanzioni severe per le manifestazioni non autorizzate e questo sta creando un clima di paura tra i cittadini. Nel tempo, questa norma diventerà un forte disincentivo alla partecipazione attiva alla vita democratica. Se concordiamo sul fatto che la libertà di espressione e di dissenso sono i pilastri delle democrazie moderne, è evidente che ogni tentativo di limitarla deve essere bloccato. Perché quello che potrà succedere domani è clamoroso. Accadrà, ad esempio, che i lavoratori di una fabbrica, licenziati in massa per un qualche motivo, non potranno più manifestare liberamente davanti alla loro azienda per avviare una normale trattativa: rischierebbero botte e galera.
Ora, tutto questo, in una situazione già caratterizzata da tensioni sociali, diventa pericoloso, alimenta la violenza. In generale, sappiamo che è sempre fondamentale che le istituzioni non scivolino verso una logica di repressione, ma sposino la logica della protezione. Invece, il disegno di legge sembra ignorare le cause profonde dei problemi di sicurezza. La criminalità e il terrorismo – lo teorizzano in molti, a prescindere dall’appartenenza politica - non possono essere affrontati solo attraverso misure punitive. È fondamentale intervenire sulle dinamiche sociali ed economiche che alimentano tali fenomeni. La sicurezza passa attraverso politiche di inclusione, educazione e coesione sociale. È nel dare certezze per il futuro ai cittadini, garantendo lo stato sociale, i diritti sul lavoro, una migliore distribuzione della ricchezza. Non c’è maggiore sicurezza nell’inasprimento delle pene e nella militarizzazione della quotidianità e delle forze dell’ordine.
Il problema è che troppe forze politiche hanno fatto del tema il loro “cavallo di battaglia”. Hanno negli anni generato paure e insicurezze, trovando terreno fertile per la “militarizzazione del quotidiano”. La demonizzazione di emigranti e manifestanti, alimenterà il clima di divisione e paura, con una strategia discutibile sul piano morale e su quello politico.
Saprà il Senato fermare questa legge? Difficile. La maggioranza di governo ha numeri importanti a proprio favore e l’opposizione, per quanto si è visto alla Camera, su questa tema appare distratta e timida. I partiti di minoranza, ma anche i mass media più importanti del Paese, sembrano non rendersi conto che questa legge, così come è stata presentata, rappresenta un grave rischio per il nostro stato di diritto. La sicurezza non può giustificare la limitazione dei diritti fondamentali. Senza dimenticare un altro pericolo, legato ad una tradizione infausta della nostra democrazia. Una volta a approvata, questa legge diventerà eterna. Come tante altre leggi repressive e inumane del passato – vedi pezzi del fascistissimo codice Rocco, le norme antiterrorismo degli anni ’70 o la più recente Bossi-Fini – nessun futuro governo, a prescindere dal colore politico, si impegnerà a cancellarla. La storia ci racconta che questa, in Italia, è la norma, la consuetudine. In fondo, avere strumenti repressivi fa comodo a tutti. E ci si laverà la coscienza raccontando che, comunque, quelle leggi così antidemocratiche e repressive le avevano volute i fascisti.
Raffaele Crocco

Sono nato a Verona nel 1960. Sono l’ideatore e direttore del progetto “Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo” e sono presidente dell’Associazione 46mo Parallelo che lo amministra. Sono caposervizio e conduttore della Tgr Rai, a Trento e collaboro con la rubrica Est Ovest di RadioUno. Sono diventato giornalista a tempo pieno nel 1988. Ho lavorato per quotidiani, televisioni, settimanali, radio siti web. Sono stato inviato in zona di guerra per Trieste Oggi, Il Gazzettino, Il Corriere della Sera, Il Manifesto, Liberazione. Ho raccontato le guerre nella ex Jugoslavia, in America Centrale, nel Vicino Oriente. Ho investigato le trame nere che legavano il secessionismo padano al neonazismo negli anni’90. Ho narrato di Tangentopoli, di Social Forum Mondiali, di G7 e G8. Ho fondato riviste: il mensile Maiz nel 1997, il quotidiano on line Peacereporter con Gino Strada nel 2003, l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, nel 2009.