Cooperazione, le nuove frontiere dell’aiuto

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Ormai siamo alla respirazione a bocca a bocca per evitare l'eutanasia [come per il servizio civile?]. Ma la glaciazione che ha avvolto il mondo della cooperazione potrebbe anche sciogliersi. La nomina di un ministro ad hoc, Andrea Riccardi, evento unico nella storia repubblicana, ha ridato fiato a un mondo - quello della cooperazione internazionale e delle organizzazioni non governative - afono per tutte le parole e speranze consumate in questi anni.

Una trasfusione di aspettative che ha perfino dato un'accelerata alla presentazione e discussione in commissione esteri del senato del testo di riforma della legge sulla cooperazione, la 49 del 1987. Una legge licenziata quando il mondo era dominato dal segretario generale del partito comunista dell'Unione Sovietica, Mikhail Gorbaciov, e dal presidente cow boy americano, Ronald Reagan, mentre in Italia si succedevano i governi balneari del pentapartito. Un'era geologica fa, insomma.

Giorgio Tonini, senatore Pd e relatore del testo in commissione, ci crede: «Questo governo tecnico sta facendo, nel giro di poche settimane, riforme impensabili. E allora perché non può mettere mano anche alla legge 49? Se non ora, quando?».

Riforma infinitamente meno complessa rispetto a quella sulle pensioni. Anche perché i provvedimenti discussi in commissione, il 7 marzo scorso, sono, nelle loro linee essenziali, il prodotto di un accordo tra le principali forze politiche raggiunto nella passata legislatura. Un compromesso, figlio di un'opera certosina di taglia e cuci che aveva tentato di non scontentare nessuno.

Riccardi, presente all'apertura del dibattito in commissione, ha ribadito due cose essenziali. Primo: «Deve essere compreso da tutti che la cooperazione allo sviluppo non è un lusso, ma un elemento essenziale della proiezione internazionale del sistema paese». Secondo: «È indispensabile garantire la stabilità nelle risorse destinate alla cooperazione».

Un tema sul quale ha litigato anche con il suo vicino di sedia in consiglio dei ministri, il collega degli esteri, Giulio Maria Terzi, che ha deciso un taglio di altri 7 milioni alla voce cooperazione. Scatenando le ire del leader della Comunità di Sant'Egidio, che al convegno organizzato dal mondo delle ong a Roma il 1° marzo, ha esternato tutta la sua costernazione. Convegno-vetrina per Riccardi, per lanciare il grande Forum nazionale sulla cooperazione, da realizzare entro fine maggio, dove far incontrare le realtà delle ong con i rappresentanti delle istituzioni e della politica italiana. Un appuntamento che manca dal 1991 e che colma uno dei vuoti denunciati dalla società civile. Forum, come ha ricordato Giulio Marcon della Campagna "Sbilanciamoci!", che «non dovrà, comunque, essere ingessato» e che «dovrà evitare il rischio di trasformarsi in una sorta di passerella governativa».

Riccardi è molto netto nel suo giudizio: il graduale e inesorabile disinteresse nei confronti della cooperazione «è il sintomo di una pericolosa introversione dell'Italia, un malessere che ha accompagnato il nostro paese negli ultimi 15 anni (...) Sento profondamente lo scarto tra la modestia delle risorse e l'attrazione dell'agire».

Non poteva essere altrimenti. L'ultimo quadriennio ha dato il colpo di grazia alla cooperazione gestita dalla Farnesina, con una decurtazione dell'88% delle risorse: dai 732 milioni del 2008 agli 86 milioni previsti per il 2012: 86 milioni che sono il bilancio di 4 ong italiane di solide dimensioni. E, per la prima volta, le risorse per il funzionamento del ministero degli esteri hanno superato le spese per i programmi. Ora costa di più far funzionare la macchina burocratica che pagare i progetti all'estero. I dati dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) per il 2010 - gli ultimi a disposizione - dimostrano, inoltre, che i tagli apportati dall'Italia hanno colpito in particolare proprio quei paesi poveri dove l'aiuto è più necessario, favorendo quelli medio-ricchi che già beneficiano di un eccessivo afflusso di aiuti. Non solo. Sempre in base ai dati Ocse, il 60% dell'aiuto bilaterale italiano è "legato" all'acquisto di beni e servizi italiani. Netto peggioramento rispetto al 2009 (55%) e al 2008 (38%). L'Italia è il maggior "legatore" di aiuti in Europa, dopo il Portogallo.

Le stesse ong che hanno organizzato il convegno capitolino hanno scritto, in un documento, che per dare un minimo di consistenza alla cooperazione italiana serve un incremento della cooperazione bilaterale di almeno 350 milioni di euro per l'anno finanziario 2013, che la porti lontana dallo 0,12% del prodotto interno lordo (Pil) attuale.

Il governo dei tecnici, per la verità, non ha ancora messo mano all'inversione di tendenza sull'attribuzione dei fondi. Così come la soluzione che si è trovata per l'introduzione della figura del ministro all'integrazione e alla cooperazione internazionale sembra essere, al momento, «una soluzione tampone, bicefala, incerta e confusa». Se non si realizzano nell'immediato alcune modifiche alla legge istitutiva, il neo ministro rischia di diventare solo una sherpa del presidente del consiglio, con funzioni di rappresentanza in giro per il mondo.

Anche il testo di riforma della legge 49, attualmente in discussione al senato e che molti sperano di veder approvato dai due rami del parlamento entro la fine della legislatura, è monco. L'accordo bipartisan del febbraio 2008 era stato raggiunto, fondamentalmente, su 3 obiettivi: l'unitarietà dell'indirizzo politico nella cooperazione, anche attraverso la programmazione triennale; la formalizzazione della carica di viceministro competente ad hoc; l'istituzione del fondo unico, in cui dovrebbero confluire tutte le risorse destinate attualmente ad iniziative di cooperazione. La responsabilità politica, secondo l'accordo, sarebbe spettata al ministero degli esteri.

Bocciata, invece, l'idea dell'Agenzia. Il timore era di «non sovraccaricare, da un punto di vista procedurale e organizzativo, la cooperazione allo sviluppo di una macchina autoreferenziale che finisca con il costare più delle risorse che si riescono a erogare». Insomma, si era voluta evitare la nascita di un carrozzone pubblico dispendioso e inefficiente. Non solo. Gli ambasciatori si erano opposti con tutte le loro forze all'ipotesi di una presenza delle strutture dell'Agenzia nel mondo. La paura era che questi terminali, soprattutto in alcuni paesi, diventassero più forti, potenti e importanti nel rapporto economico bilaterale rispetto alla stessa ambasciata.

Nodi ancora presenti sul tavolo di discussione. Anche se l'accordo di 4 anni fa è stato in parte superato dalla scelta di istituire la carica di un ministro. Importante. Ma non decisiva. Resta da fare, ora, un ministero. E non è cosa da poco. Visti i veti incrociati.

Gianni Ballarini da Nigrizia

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