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E il silenzio del mare
Riconciliazione
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Foto: M. Canapini
Nel dicembre 2019, seguendo le principali rotte dei migranti/profughi lungo i confini d’Europa, ho trascorso due settimane in Tunisia, “in bilico” tra fuggiaschi e instabilità collettive. Condivido un estratto di quei racconti “d’oltremare”, radicati sulla frontiera.
Era il 1995 quando Mohsen Lihidheb trovò il primo Mamadou sulla spiaggia di Zarzis. Mamadou è un nome comune, uno pseudonimo dato dall’ex impiegato delle Poste Tunisine a tutti i migranti senza vita in cui si è imbattuto. Persone senza identità, sconosciute, le cui spoglie giacciono sotto i cumuli assemblati da Chamseddine. “A quarant’anni mi sono detto che non volevo più subire la vita. Ho abbandonato la politica, le leggi, la burocrazia, affidandomi al moto del mare. Ho cominciato a raccogliere tutto ciò che le onde portavano a riva. Ciò che raccoglievo lo accumulavo nel mio giardino. Scarpe, vestiti, borse, bottiglie di vetro contenenti messaggi. Tali elementi costituiscono il Museo della Memoria del Mare e dell’Uomo: un’azione che voleva essere solo ecologica, ma che è poi diventata un modo per rendere giustizia, nel mio piccolo, ai migranti naufraghi del Mediterraneo. Ho realizzato quasi duecento installazioni e nel 2002 sono entrato nel Guinnes dei Primati per il numero di oggetti raccolti: 26.000 in tutto” racconta Mohsen con piglio da attore, cappellino de Le Poste Tunisienne in testa. “I messaggi chiusi nelle centinaia di bottiglie ritrovate raccontano di fatiche e dolori, speranze e quotidianità: l’andamento della pesca o una preghiera donata alla divinità Mare. Ricordo in particolare la lettera di un uomo italiano propenso al suicidio perché solo. A volte abbiamo lanciato un appello alla Radio di Sfax, rintracciando alcuni dei protagonisti e allacciando così rapporti imprevedibili”.
I calcinacci della moschea Oulad Immemed sono rotolati fino al Cafè Tunis, quintessenza del bar paesano: caffè, calcio, tono di voce spropositato. I raggi del pomeriggio filtrano nella stanza, modellando gli oggetti. È simile alla luce Mohsen, che quando entra nel suo piccolo museo scuote cappotti e sandali, tentando di dar loro un po’ di vita. “Ogni indumento per me è come una bottiglia persa nel mare: è un messaggio, è quasi un essere vivente. Ho un approccio molto intimo, che mi porta a cercare una soluzione al fenomeno migratorio. Mi definisco un Boughmiga, un uomo saggio e semplice. Ho portato avanti questo progetto tutto da solo. Ho dovuto combattere non solo contro lo scetticismo dei compaesani ma anche contro uno Stato completamente assente. Erano gli anni della dittatura, di cui ero oppositore. Temevo che venissero a distruggere ciò che facevo. Mi hanno minacciato e zittito più volte. Come ho scritto nel libro Mamadou e il silenzio del mare (pubblicato nel 2013), Mamadou conquisterà il mondo: gli arrivi non si fermeranno mai. Ho voluto scrivere il libro come fosse un elogio, una sorta di augurio a tutti i migranti, con la speranza che possano prendere ciò che gli aspetta col sudore della fronte e la forza del cuore. Credo nell’universalismo, nel sentirsi parte di tutto e rispettare l’altro (compreso l’ambiente). Tutti vogliono partire e la terra è di tutti, bianchi e neri. Di certo chi si mette in cammino nel Sahara con le ciabatte può avere un solo obiettivo: arrivare sani e salvi o morire nel tentativo. Basterebbe agevolare le richieste per il visto o aumentare i progetti umanitari nei Paesi poveri. A noi che abitiamo la frontiera non resta che l’attivismo diretto”. Mohsen sprofonda dentro una seggiola di paglia, estrae un taccuino e legge ad alta voce una sua poesia intitolata Comme Riace, dedicata al modello di convivenza tra migranti e autoctoni nato nell’entroterra calabrese.
Come Riace, il mare è mosso dal vento,
con le onde e i capricci del tempo,
le barche da guerra di Cartagine e Atene,
le orde dei delfini e delle belle sirene.
Ed ecco ancora, alla sua grandezza e all’onore,
dall’oscurità arrivano fratelli e sorelle,
pieni di spaesamento, angoscia e paura
pieni di saggezza e bontà nel cuore,
che Riace accoglie nel suo nido.
Tra migranti pacifici e paesani,
una stretta di mano tra uomini,
al di là delle leggi e dei dogmi,
per decostruire pregiudizi gratuiti
e fare della convivialità una maniera di vivere.
Che Zarzis sia come Riace
una stella brillante nella storia e nei percorsi dei migranti.
Che siano trampolini per un mondo migliore. Per un mondo solidale.
Senza visti né frontiere.
“A Zarzis approdano molti harraga, coloro che bruciano le frontiere. La spiaggia della città è molto grande, impossibile sorvegliarla interamente. Ricordo bene il 2011: subito dopo la rivoluzione dei Gelsomini, molti tunisini hanno preso la via del mare. Si contano 26.000 giovani sbarcati quell’anno sulle coste siciliane. È stato uno slancio collettivo. Quasi tutti gli amici di mio figlio sono partiti, lui era rimasto solo. Aveva vent’anni. Con calma l’ho dissuaso, promettendogli un motorino. Pazientemente abbiamo fatto domanda per il visto, l’ha ottenuto e oggi vive a Parigi. Sono molto fiero di lui; prima che partisse gli ho detto chiaramente di fare attenzione, l’Europa non è il paradiso di cui tanti parlano. Qui le persone hanno la loro idea dell’Occidente e non ha niente a che vedere con la realtà. I migranti non ammettono il rischio a cui vanno incontro, sono semplicemente delle persone che vogliono lavorare, che cercano benessere: non è un crimine. Forse sono un sognatore ma chi si nasconde dietro la lingua, la frontiera, l’identità, sta seguendo la politica dello struzzo. Bisogna comprendere queste persone, aiutare tutti affinché ci sia un benessere condiviso”. Nell’aia battuta dai mulinelli, una spirale ipnotica di bottiglie verdi incorpora la moralità della denuncia. In senso circolare consumiamo gli ultimi passi all’interno del museo informale. Adagiati casualmente nell’erba rada, scheletri di delfini, divinità delle religioni pagane: salvatori dei naufraghi, traghettatori di anime. “Voglio che questo spazio continui a essere libero, attento a infondere tracce di umanità. Non voglio compromessi né che questo diventi un luogo per i turisti della guerra, bensì una memoria del nostro tempo, un simbolo di ciò che siamo. Tanti i ricordi che porto con me: coi primi sbarchi avevo improvvisato un cimitero sulla collina a ridosso del mare, 16 chilometri circa da qui. Un giorno non vidi nessun corpo, ma sentii la testa di un cadavere sbattere ripetutamente contro gli scogli. Una mattina ritrovai il cappottino rosso di una bambina. Lo portai in città legato sopra la macchina, a mo’ di stendardo, come fosse una lenta processione in onore della vita. Passai dentro al mercato strombazzando, pensavano tutti fosse un matrimonio”. Luna calante e stelle lucenti sono scomparse, divorate dalla nebbia che avvolge Zarzis. È sufficiente bucare la coltre incolore per godere di uliveti gravidi di frutta.
Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).