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Il pescatore di migranti
Esclusione sociale
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Foto: M. Canapini
Nel dicembre 2019, seguendo le principali rotte dei migranti/profughi lungo i confini d’Europa, ho trascorso due settimane in Tunisia, “in bilico” tra fuggiaschi e instabilità collettive. Condivido un estratto di quei racconti “d’oltremare”, radicati sulla frontiera.
L’inverno colpisce fitto Ben Garden. Chamseddine Marzoug, ribattezzato il pescatore di migranti, sembra far parte della terra stessa, insieme alle boe gialle, agli ulivi, agli orsetti bianchi sulle tombe dei bambini. Fino ai primi anni 2000 (prima dei grandi flussi moderni), i cadaveri sospinti dalle correnti venivano seppelliti nel cimitero musulmano di Lazragh. Dal 2006, per mancanza di spazio, le autorità hanno individuato un terreno sabbioso fuori Zarzis, tra Djerba e la frontiera libica. I corpi gonfi cullati dal mare nostrum venivano qui interrati in larghe fosse comuni, finché l’ex tassista volontario della Mezzaluna Rossa si è fatto carico del cimitero degli ignoti. A cinquantasei anni, da almeno un decennio e con scarso aiuto istituzionale, Chamseddine si prende cura di circa quattrocento cumuli di terra riarsa scavati a mano, trasformando il promontorio di una discarica in un santuario, un luogo della memoria che richiama volti e interpella coscienze. “Sono un cittadino, un volontario, un militante contro il razzismo. Seppellisco individualmente i tanti annegati, i cui corpi non sono reclamati dai familiari”. Ci stringiamo la mano a pochi centimetri dall’unica lapide nominata: Rose-Marie. “Si tratta di una ragazza nigeriana di ventotto anni. Salpò dalla Libia con altre centoventisei persone. Si salvarono tutti, tranne lei. Era il 27 maggio 2017”. Tutto attorno cumuli senza nome. Alcuni riportano incisa la data in cui è stato recuperato il corpo. Piante secche e fiori appassiti sulle tombe degli adulti, macchinine e peluche su quelle degli infanti. “Aveva cinque anni lui, - dice Chamseddine sottovoce, pacatamente - fu recuperato in mare con una donna e ho pensato fosse sua madre. Li ho sepolti vicini, la testa una accanto all’altra”.
I cadaveri ritrovati al largo o sulla spiaggia di Zarzis (provenienti spesso da Sabratha e Zawiya: punti d’imbarco) vengono lavati, ricomposti come vuole la tradizione tunisina e portati in ospedale, per individuarne sesso ed età, quando è possibile, dalla dentatura. Poi, in sacche identificate da un numero e dalla data di ritrovamento, sono presi in carico dal signor Marzoug. Ma il cimitero, su due livelli, è ormai saturo. Per ampliarlo, con il Comitato regionale della Mezzaluna Rossa, Chamseddine ha lanciato un anno fa una petizione online per raccogliere trentamila euro e acquistare un terreno di duemilacinquecento metri quadrati. “È quello del vecchio stadio di calcio, a circa un chilometro di distanza da qui, dove vorremmo costruire la nuova necropoli dei senza nome. La vita li ha rifiutati. Noi non possiamo farlo. Dobbiamo dar loro una sepoltura dignitosa. Ci vuole umanità nel trattare certe tragedie, l’intera Africa viene bistratta in Libia e le onde ne sussurrano le storie. Quando i pescatori di Zarzis escono in mare, si imbattono nei corpi dei migranti che galleggiano alla deriva, a volte sono ancora vivi, aggrappati ad assi di legno. Poi ci sono gli sconosciuti di cui non abbiamo notizia: in assenza di cadaveri, la notizia non esiste, la morte non è confermata, viene tenuta al guinzaglio. Lo sa bene Chamseddine Bourassine, fondatore dell’associazione pescatori di Zarzis, arrestato con altri sei compagni con l’accusa di favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Il loro crimine? Il salvataggio di una barca in pericolo nel Mar Mediterraneo. A trentacinque miglia da Lampedusa hanno avvistato una piccola barca che trasportava quattordici cittadini tunisini e il cui motore si era rotto. I sei hanno allertato la Guardia Costiera italiana, che tuttavia ha impiegato molto tempo a mobilitarsi. Sapendo di non essere autorizzati a caricare le quattordici persone a bordo, hanno deciso di trainare la barca fino a venti miglia da Lampedusa, al fine di facilitare le operazioni di salvataggio delle autorità italiane. Ciò è bastato per farli trattare da scafisti”. Una catena coloratissima di melograni fiancheggia l’asfalto.
“Tra il 2013 e il 2015 abbiamo salvato migliaia di persone sotto al coordinamento della Guardia Costiera tunisina. Ho sepolto quattrocento persone in dodici anni, oltre settanta solo nel 2017. Chi si prende la responsabilità di queste morti? È un crimine legittimato. L’Europa deve capire che occorre agevolare la libertà di movimento. Perché lui è morto? - si domanda l’uomo, indicando un cumulo di terra vicino ai nostri piedi - Perché non aveva un visto? È surreale. Non mi stancherò mai di ripetere queste cose. Tante persone sono venute a conoscermi e continuerò a denunciare e prendermi cura dello spazio. L’anno scorso sono andato al Parlamento UE di Strasburgo. C’è bisogno di tempo e sensibilità, di un racconto più umano e reale, ho detto ai diplomatici. Con Sea Watch ho partecipato a un salvataggio per vedere le cose da un punto di vista diverso. Quel giorno ho capito che l’immigrazione non si fermerà mai, anzi, nel caso della Libia aumenterà. C’è troppa corruzione e l’Europa è come l’Africa in fondo. Quando incontro i ragazzi sopravvissuti ai naufragi o chi ha scelto di vivere e lavorare a Zarzis, mi raccontano di gommoni bucati appositamente dai trafficanti in un circolo infinito di mazzette, favori, soprusi. Il Mediterraneo è il più grande cimitero a cielo aperto del mondo”.
Le nuvole, così nitide da poterle toccare, si sfilacciano verso ovest. Solo nel suo rapporto con la morte, guardo Chamseddine partire in fretta per Sfax, dove verrà proiettato il documentario The Strange Fish che lo vede tra i protagonisti del racconto mediatico. Oumar, ciadiano, passeggia nei pressi del centro IOM. Come tanti altri, anche Oumar si appella a un vecchio trucco per sopravvivere: dichiarare la minore età per sfuggire alla strada. Quando chiedo di casa sua, sputa poche parole per descrivere ciò che si è lasciato indietro: la miseria, le capanne, il rien assoluto. Le Chad n’est pas comme l’Europe. Il n’y a rien là-bas. Chouki Etnech, nato nel 1977, ha richiesto il rimpatrio volontario. “Ho tre figli minorenni. Sono tornato in Tunisia tre mesi fa, vivevo a Parigi. Per imbarcarmi, due anni fa, ho pagato circa tremila euro, da Sfax a Lampedusa. Eravamo quindici a bordo di un barchino autonomo. Il viaggio, complessivamente, è durato otto giorni. Due di traversata, tre a Lampedusa, altri tre per raggiungere la Francia. Senza documenti è terribile, stai sempre a nasconderti lavorando in nero. Basta harraga, harraga est fini... Sto risparmiando soldi per comprarmi una barchetta e tornare a fare il pescatore”. Alle 21, i viali di Ben Garden si svuotano per un immaginario coprifuoco volontario. Da qualche parte due bocce urtano tra loro producendo un tonfo sordo.
Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).