Diciamo la verità...

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Immagine: Arcire.it

Mi pace pensare che la differenza sia tutta lì: fra chi pensa che il 25 Apirle è la Festa della Liberazione e chi, da anni, ne parla come di una “ricorrenza istituzionale”, il “Giorno della Liberazione”. Perché le parole sono importanti. Se è una Festa resta di popolo, di gente viva e vitale, rimane di quelli che vogliono ricordare chi è morto per creare un Mondo migliore. Se diventa ricorrenza si trasforma in un affare di Stato, con bandiere e stendardi, la fanfara e l’esercito che sfila.

La ricorrenza istituzionalizza. Diventa una data fra le tante sul calendario, una di quelle che segnano una tappa della storia. La Festa dilaga e trasforma quel giorno nel segno di un’appartenenza precisa, nella data di nascita di un’Italia trasformata e diversa.

È questo che dobbiamo fare il 25 Aprile. Ricordarci che è una festa. Una festa di popolo, di gente, non di uniformi e istituzioni. Il 25 Aprile dovremmo ricordare certo e riflettere, proporre, discutere. Ma dovremmo anche cantare, ballare, mangiare assieme e stare bene. Perché è la festa del popolo che si libera dal fascismo e dal nazismo. 

Certo, è vero: è complicato festeggiare la Liberazione sapendo di non esserci mai liberati davvero. Gli eredi del ventennio, ora in camicia bianca e tailleur, li abbiamo ancora qui, che governano sostituendo, per ora, il manganello degli squadrasti con il manganello istituzionale, che cala ormai puntuale su ogni forma di dissenso in piazza. Usando le denunce e la censura al posto dell’olio di ricino. Svuotando le istituzioni democratiche a colpi di leggi che esaltano l’ordine, le regole e la governabilità.

Soprattutto comandano – perché questo fanno, il governare è cosa delle democrazie reali – cancellando la storia, modificandola, piegandola alla ragione della loro esistenza. Una manovra, questa, che sta riuscendo bene e di cui siamo stati in parte complici. Lo siamo da quando fatichiamo a far entrare nelle nostre scuole i temi legati alla Resistenza, perché considerati “divisivi”. Da quando mettiamo sullo stesso piano la “shoah” e le “foibe”. Da quando abbiamo cominciato a considerare uguali i partigiani e i giovani fascisti morti. Umanamente è vero: sono individualmente tutte vittime della ferocia che le ha travolte. Storicamente e politicamente, però, la linea che li divide è invalicabile. I partigiani e le partigiane erano i liberatori, i ragazzi di Salò erano dalla parte sbagliata e aberrante della giustizia e del diritto umano.

Se tutto questo accade, abbiamo un modo per reagire e cambiare le cose. Facciamo in moco che il 25 Aprile resti la “Festa della Liberazione”. Usciamo dall’istituzione. Riprendiamoci questo giorno e facciamolo restare nostro, bello, emozionante. Tracciamo una linea netta fra chi il fascismo lo ha sconfitto e lo vuole sconfiggere tutti i giorni e chi, invece, è nostalgico o semplicemente qualunquista. Loro, è chiaro, a questa Festa non potranno, né vorranno, mai partecipare.

Raffaele Crocco

Sono nato a Verona nel 1960. Sono l’ideatore e direttore del progetto “Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo” e sono presidente dell’Associazione 46mo Parallelo che lo amministra. Sono caposervizio e conduttore della Tgr Rai, a Trento e collaboro con la rubrica Est Ovest di RadioUno. Sono diventato giornalista a tempo pieno nel 1988. Ho lavorato per quotidiani, televisioni, settimanali, radio siti web. Sono stato inviato in zona di guerra per Trieste Oggi, Il Gazzettino, Il Corriere della Sera, Il Manifesto, Liberazione. Ho raccontato le guerre nella ex Jugoslavia, in America Centrale, nel Vicino Oriente. Ho investigato le trame nere che legavano il secessionismo padano al neonazismo negli anni’90. Ho narrato di Tangentopoli, di Social Forum Mondiali, di G7 e G8. Ho fondato riviste: il mensile Maiz nel 1997, il quotidiano on line Peacereporter con Gino Strada nel 2003, l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, nel 2009. 

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