Ucraina: fuoco e vodka liscia

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Foto: M. Canapini ®

Ucraina orientale. I volontari dell’associazione “Kharkiv station” sono gli unici, in città, ad offrir sostegno agli sfollati provenienti dal Donbass messo a ferro e fuoco. Le cinque camere di un ostello autogestito fungono da rifugio per dieci persone tra cui quattro bambini. Fuori, sulla strada lastricata di pozzanghere, sfreccia una colonna composta da otto camion verdi. Ampie bandiere giallo-azzurre sventolano furiose, legate ai tettucci dei mezzi. Emergono, fugaci, i visi fiacchi e smunti dei giovani soldati rannicchiati nel baule. Ognuno imbraccia il proprio fucile e Luda, una volontaria, mormora tra i denti: "Forse tornano dalla guerra, oppure ci stanno andando proprio ora. Il confine col Donbass non è poi così lontano". Sergey ha venti anni tondi. Lo osservo mentre ondeggia la testa a ritmo di musica pop. Non riesco proprio a immaginarlo vestito in mimetica con un paio di granate appese al cinturone. Eppure è stato arruolato, poi ferito gravemente in combattimento e divenuto quindi invalido come tanti altri fratelli ucraini. Un ingranaggio mal funzionate. L’ex militare dice di non aver avuto paura mentre combatteva al fronte, anche se le fotografie che getta ora sul tavolino sembrino dimostrare il contrario: un giovane smarrito che sghignazza beffardo con bombe e fucili a portata di mano. 

Lyudmyla è poco più giovane: diciannove anni. Sbucciamo insieme le patate da far bollire per il pranzo. Sua figlia Milana, nata solo un mese fa, dorme infagottata in una carrozzina bianca e vellutata. Lyudmyla è scappata in macchina da Lugansk dopo che la sua abitazione è crollata sotto il colpo di un mortaio. Nell’esplosione ha perso il padre, la madre, il fidanzato e non sapendo dove andare si è rifugiata qui: “Vorrei che la guerra finisse presto, dobbiamo incolpare le autorità per questo massacro, troppa gente sta soffrendo. È davvero un delirio”. La tv dell’ostello “solidale” è perennemente accesa e trasmette quasi sempre cartoni animati. Pezzi di lego colorati sono sparpagliati sul tappeto. L’unico a giocarci è Vladik, un orfano di appena dieci anni. A intervalli sorseggia coca-cola da una tazza di coccio. È stato evacuato dalla città di Mariupol due mesi fa e per raccontarmi a suo modo l’esperienza vissuta tratteggia su un foglietto le sagome di alcuni soldati esclamando “bahato” … molti. Poi prosegue, spalleggiato da Natascia, una signora sordo muta. Raccontano che a Donetsk gli spari erano così forti da non riuscire a dormire. Entrambi non hanno motivo di rimanere e venerdì prossimo, annuiscono, emigreranno in Polonia per ricominciare da capo. Alle 23.00, mentre tutti dormono, Vladik sgraffigna dal frigo una bistecca di pollo e scappa via veloce. Solo nel 2014 sono arrivate in città più di un milione di persone: bambini soli, adolescenti traumatizzati, famiglie divise, rari anziani. Gran parte hanno vissuto nelle cantine per mesi e alla prima occasione si sono riversati nelle città considerate più sicure come Kiev, Lyiv, Odessa. Di fronte l’ingresso di un centro d’accoglienza improvvisato conto circa sessanta persone in attesa di vestiti, cibo, medicine, giocattoli, documenti. Una giovane madre discute con un’amica, le mani legate dietro alla schiena: “Siamo scappati da Donetsk. Una città bellissima prima della guerra, piena di fontane e aiuole fiorite. Ora ci sono macerie e cadaveri lungo i marciapiedi. Ho due bambini piccoli, di uno e sei anni. Abbiamo perso tutto e non so cos’altro inventarmi se non chiedere aiuto! Non abbiamo una casa, un lavoro … ho paura che la guerra posso arrivare fin qui”. 

I confini delle vite umane sono come foglie secche in autunno. In un angolo dello stanzone è appoggiata Mikayla; ha gli occhi verdi e i capelli cosi chiari da apparire quasi bianchi. Racconta che è scappata da Sloviansk un mese fa insieme alla madre, il fratellino ed un altro bambino piccolo. Non c’erano mezzi pubblici per andarsene e le infrastrutture erano ridotte a cenere. “I bambini purtroppo sono ancora traumatizzati, spesso si svegliano di notte ed il minimo tonfo o rumore, come un piatto che si rompe a terra o una porta che sbatte forte, crea in loro una crescente ansia”. Attualmente Mikayla ha deciso di diventare una volontaria dell'associazione e aiutare le migliaia di persone stabilitesi a Kharkiv, in attesa di tempi migliori. “Le chiese sono sempre più affollate. Le persone hanno perso tutto e si aggrappano alla fede, a qualsiasi cosa possa dargli sollievo" conclude, riempendo uno scatolone di tachipirina.  

Quattro gatti spappolati nel giro di duecento metri puntualizzano che sulle strade del Donbass si corre forte. Il kalashnikov è onnipresente nei posti di blocco, la poca voglia di guardarsi in faccia pure. Gli edifici attorno sono crivellati di proiettili, i tetti sfondati penzolano nel vuoto. Non c’è anima viva e le strade riportano gli sfregi e i danni delle bombe lanciate. Schegge di metallo in grado di spazzare via asfalto compatto. Una recluta con ancora i brufoli nella fronte pattuglia il lato ovest del perimetro con un AK 47. L’elemento che funge da spartiacque tra due statali è l’ospedale civile di Sloviansk, bucato come un formaggio groviera. Dalle mura pericolanti fuoriescono assi marce e involucri di stanze e sale operatorie. La struttura dava soccorso a cinquecento sfollati in fuga dal fronte. Nove vittime su dieci, nelle guerre attuali, sono sempre civili, uccisi durante azioni quotidiane. I bersagli maggiormente colpiti, nelle guerre collaterali di oggi, sono sempre luoghi di ritrovo come scuole, parchi pubblici, ospedali appunto. Che fine avranno fatto le cinquecento persone prese in cura? 

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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