Siria, la ricerca dei “compagni di prigionia”

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Mansour Al Omari - Foto: E. Bussa

di Emanuele Bussa

“Il 16 febbraio 2012 i soldati dell’Airforce intelligence siriana hanno fatto irruzione nei nostri uffici arrestando me e i miei colleghi senza darci la possibilità di avvisare i nostri famigliari e i nostri legali. Da quel giorno siamo semplicemente scomparsi nel nulla”. Mansour Al Omari ricorda così il giorno del suo arresto. Si trovava nella sede del Syrian Center for Media and Freedom of Expression a Damasco, dove svolgeva il ruolo di supervisore nell’ufficio dedicato alla raccolta di documentazione per persone detenute o scomparse.

Fino al 2011 aveva lavorato come insegnate di lingua inglese e giornalista a Damasco, ma, allo scoppio delle rivolte popolari in Siria contro il regime autoritario di Bashar Al Assad, aveva iniziato a collaborare segretamente con numerose agenzie giornalistiche internazionali e arabe, documentando la situazione in Siria. In seguito, si era unito alla Ong Syrian Center for Media and Freedom of Expression, un’organizzazione no-profit legata alle Nazioni Unite e impegnata nel documentare le violazioni contro i diritti umani perpetrate nel Paese.

Dopo l’arresto, Al Omari e i suoi colleghi vengono portati al centro di detenzione gestito dall’Airforce intelligence. “Siamo stati torturati, picchiati, umiliati. Ho assistito a scene orribili. Ricordo che un giorno hanno portato nel centro un gruppo di manifestanti. Erano tutti giovanissimi. Uno dei carcerieri ha ordinato a un ragazzino di far passare la sua mano attraverso le sbarre della finestra che si trovava sopra l’ingresso della cella. Il soldato ha bloccato il dito indice del ragazzo a una delle sbarre con una fascetta di plastica e ha iniziato a bruciarlo con un accendino”...

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