La statua della prostituta bambina e le vergogne del Giappone

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Una ragazza coreana in abito tradizionale educatamente seduta con le mani in grembo e lo sguardo orgogliosamente fisso in avanti, di fronte al consolato giapponese di Busan, in Corea del Sud. Una statua di bronzo a dimensioni naturali che sta provocando la crisi diplomatica che ha portato al ritiro dell’ ambasciatore e del console giapponese dalla Corea del Sud.

La statua, memoria delle vergogna, rappresenta una di quelle donne che, durante la seconda guerra mondiale, erano chiamate «donne di conforto», ragazze tra i 13 e i 19 anni costrette a prostituirsi per dare ‘conforto’ ai soldati dell’esercito imperiale giapponese.

Si calcola che tra il 1932 e il 1945 siano state almeno 200mila: soprattutto coreane, ma anche cinesi, filippine, indonesiane e taiwanesi. Il Giappone per lungo tempo ne ha negato l’esistenza per poi pretendere che le ragazze si fossero prostituite volontariamente, e non, come furono in realtà’, autentiche schiave sessuali. Una ferita aperta per la storia e la memoria di tutto il sud est asiatico, che tra Corea del Sud e Giappone sembrava essere stata risolta un anno fa, quando il primo ministro Shinzo Abe riconobbe i fatti ed espresse «le più sincere scuse e il rimorso per tutte quelle donne che hanno attraversato irripetibili e dolorosissime esperienze» e promise la creazione di un fondo per le vittime di un miliardo di yen.

L’allora presidente sudcoreana Park Geun-hye, oggi a processo per impeachment, aveva accolto le parole di Abe, definendole un modo per «costruire fiducia e una nuova relazione tra i due paesi», ma in molti accusarono allora i due leader di aver risolto la questione semplicemente per ragioni di stato visto. Le vittime, di cui 46 ancora vive, non erano state neppure sentite, ma soprattutto, al Giappone non era stata imputata nessuna responsabilità legale, mentre la compensazione economica non sarebbe andata direttamente alle donne violentate ma era di fatto una mancia di Stato.

Ed ecco che ad a poco più di un anno dall’accordo del 2015 che doveva chiudere in maniera «ultima e irreversibile» la questione più dolorosa e vergognosa che divide i due popoli, gli attivisti coreani hanno rimesso la statua della ragazza coreana di fronte al consolato giapponese a Busan. Reazione immediata e da parte di Tokio per un disonore che ancora brucia. Il Giappone ha ritirato console e ambasciatore, e sospeso gli scambi di valuta e bloccato importanti accordi economici. Reazione fuori misura che richiama ancora di più l’attenzione sulla vergognosa vicenda che ha coinvolto le popolazioni asiatiche sotto occupazione giapponese dal 1932 a 1945.

Tokio chiede al governo di Seul e alle municipalità coinvolte di rimuovere le statue della ragazza, ma non sarà facile. ‘Le statue’ , plurale, sono ben 38. La più famosa, la prima, fu collocata davanti all’ambasciata giapponese a Seul nel 2011 per commemorare la millesima manifestazione a sostegno delle «donne di conforto».

Una vergogna di cui, piaccia o non piaccia al ricco Giappone, il mondo deve invece conservare memoria. «Comfort women» nella lingua internazionale per nascondere i fatti, «Ianfu» in giapponese, 慰安婦, eufemismo per prostitute. 20.000 schiave sessuali, secondo i ‘riduzionisti’ giapponesi, da 360.000 a 410.000 per alcuni studiosi cinesi. La maggior parte di loro venivano dai Paesi occupati, ‘preda di guerra’ da Birmania, Thailandia, Vietnam, Malesia, Taiwan, Indonesia, Timor Est. E Corea.

Da: Remocontro.it

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