Iraq: l’esercito di Al Sistani

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Najaf (Iraq) - La base di addestramento della Polizia è poco fuori dalla città di Najaf. Sono solo le 10 del mattino ma fuori dall’ufficio sbiadito del colonnello Saad Tarek la temperatura sfiora i 54 gradi. Poco importa per i circa duecento nuovi volontari appena arrivati. Nonostante il caldo asfissiante e il mese sacro del Ramadan, le giovani reclute cantano e ballano, inneggiando alla potente figura religiosa sciita irachena, il grande Ayatollah Ali al-Sistani. È lui che il 15 di Giugno, da Kerbela, seconda città santa per gli Sciiti, dopo l’avanzata travolgente dell’ISIS nell’Ovest del Paese appoggiato dalle tribù sunnite, ha invitato gli iracheni a prendere le armi e combattere.  “I cittadini che sono in grado di impugnare le armi e combattere i terroristi – ha detto durante il sermone del Venerdì – dovrebbero volontariamente unirsi alle forze di sicurezza. Chi si sacrifica per difendere il Paese e la sua famiglia avrà l’onore di essere un martire”. Detto fatto. Ancora oggi, a quasi un mese di distanza dall’annuncio, volontari da tutto il Paese si riversano a frotte nei centri di addestramento pronti a combattere. E tanti, sottolineano, a morire. Quelli che avevano contatti con le milizie sono andati con le milizie, gli altri si riversano in questi centri governativi.

L’entusiasmo tra i nuovi arrivati è alto. Mentre in fila sotto uno dei tanti capannoni bianchi aspettano il loro turno per registrarsi, un giovane urla: “Chiamami e dimmi il tuo volere. Credimi, l’Iraq oggi sarebbe diviso e a pezzi se non fosse per Ali al Sistani”. Parte un battito di mani e un ballo, finché uno dei comandanti in carica richiama le reclute all’ordine. “Sono venuto qui dopo la fatwa di al-Sistani”, racconta Ali “Oggi l’Iraq è in pericolo. I terroristi, vogliono dividere questo Paese ma non ci riusciranno”. Poco importa che la maggior parte della rivolta è composta da iracheni che in questi anni si sono sentiti esclusi dal governo sciita di Nuri al-Maliki. Aziz è sciita, come tutte le reclute, oltre un milione secondo il governo, che hanno deciso di arruolarsi. “Ho chiuso la pizzeria e detto a mia madre che venivo qua, lei ha accettato”. Cosa sarà di tutte queste migliaia di giovani è poco chiaro anche ai comandanti in carica. Mentre il comandante Ali, seduto comodamente nel suo tetro ufficio con una divisa pulita e l’aria condizionata raccontava che si tratta di “nuovi arrivati alle armi”, un altro comandante, a poche centinaia di metri nello stesso compound assicura che “molti di questi ragazzi hanno combattuto durante l’invasione americana e oggi sono tornati ad arruolarsi”. Tra due settimane, alla fine dell’addestramento, saranno divisi a seconda del loro grado di preparazione. I più esperti andranno al fronte, gli altri saranno messi a pattugliare le città sacre di Najaf, Kerbela o Samarra.

Alle 11 il gruppo delle nuove reclute viene spostato in un campo di addestramento per l’inizio della preparazione.  I fucili, per adesso, sono di plastica. Le reclute sono divise in quattro gruppi. Ognuno ha due istruttori. I corsi vanno dal maneggio delle armi, dal Kalashnikov alle mitragliatrici pesanti, alle tecniche di attacco e difesa, fino al primo soccorso. A gruppi di otto, dieci persone, vestiti con divise mimetiche che si sono dovuti comprare, i giovani volontari si rotolano nella polvere del campo, saltano dai pick up simulando azioni di attacco contro il nemico. Altri fingono l’evacuazione di feriti dal campo di battaglia. Almeno per adesso, lontani dal fischio dei proiettili e le esplosioni, i nuovi volontari sembrano determinati.

Ma mentre questi giovani si preparano per diventare una generazione futura di uomini armati che spadroneggiano in Iraq, i critici assicurano che l’arrivo di così tanti volontari esclusivamente sciiti è un pericolo per l’esercito che già oggi è accusato di settarismo e di servire esclusivamente gli interessi del primo ministro al-Maliki, segnalato come il responsabile della crisi irachena.

Andrea Bernardi

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