Il tribunale delle donne per i Balcani

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Il 14 settembre a Sarajevo si sono date appuntamento più di 60 donne per parlare di giustizia. Una giustizia diversa, che non misura la soddisfazione delle vittime in anni di condanna, pene e sentenze.

Il percorso che ha portato al primo dibattito pubblico per l'istituzione del tribunale delle donne per i Balcani è cominciato nel 2000. Iniziatrici sette organizzazioni di donne che hanno fatto della resistenza al militarismo e del riconoscimento dell'altra, una pratica politica quotidiana: Donne in nero (Žene u crnom) Serbia, Centro per gli studi delle donne (Centar za ženske studije) di Zagabria, Centro per gli studi delle donne (Centar za ženske studije) di Belgrado, Centro per le donne vittime di guerra (Centar za žene žrtve rata) di Zagabria, Rete delle donne del Kosovo (Rrjeti i Grupeve të Grave të Kosovës) Kosovo, Anima Kotor del Montenegro e Donne per le donne (Žene ženama) della Bosnia e Herzegovina.

Il tribunale delle donne è un'iniziativa che appartiene al discorso del dissenso, un modello di giustizia riparatoria/restaurativa, che si contrappone alla giustizia dei tribunali tradizionali. Questo tribunale trova le sue radici in una forma di resistenza che, dopo le violenze della guerra intende offrire spazi di dignità, ascolto e riconoscimento della perdita.

Un tribunale che concentra la propria attenzione sulle vittime, e su i/le sopravvisute. Un tribunale fatto da donne e uomini autorevoli che vuole tessere e ricucire memoria ma anche restituire emozioni e relazioni. Dal 1993 quando per la prima volta è stato proposto, ci sono state 35 tribunali delle donne che hanno offerto una prassi di giustizia diversa e alternativa, che hanno parlato di guerre ma anche di povertà, traffiking. Violenze diverse, scaricate tutte, sui corpi delle donne e non solo.

A Sarajevo, insieme a Corinne Kuman, fondatrice del tribunale per le donne c'erano Sylvia Marcos (Messico), Yvette Abrahams, (Sud Africa), Eman Khamma (iraq), Vichuta Ly (Cambogia) e Ethel Long Scott (US). Donne che hanno alle spalle esperienze di conflitti, esclusioni, margini. Donne che hanno dato per prima cosa a sè e quindi alle vittime, voce e volti di persone reali, facendole uscire dall'anonimato e dalla massa informe in cui la vastità del crimine o la fama dei carnefici le aveva ricacciate.

A Sarajevo, in una fredda mattina autunnale, all'ultimo piano dell'hotel Saraj gli scenari possibili del tribunale prendono forma. E' la riflessione, ma anche la pratica politica e la visione poetica di Corinne. Che rivendica la libertà e la sacralità di parole fragili come quelle che appartengono al mondo delle emozioni per ribadire il diritto trasversale dei sud del mondo ad una gustizia riparatoria.

Una giustizia che non risponde alle categorie giurisprudenziali dei diritti umani occidentali spacciati per universali. Consumati e sviliti dall'impotenza e inazione delle Nazioni Unite. E' la resistenza atipica delle vittime che non si accontentano di giudici e tribunali internazionali pagati per fornire giustizie circoscritte e con il contagocce. Che fingono di non vedere quanto i crimini del Ruanda, della Bosnia Erzegovina somiglino a quelli perpretati dagli Stati Uniti in Vietnam, Afganistan, Iraq...

Il tribunale delle donne proposto da Corinne è la ricostruzione della memoria e della storia per una restituzione, riparazione di quanto calpestato. E' la capacità di Yvette di rivivere l'apartheid e di rielaborarlo con i figli e le figlie dei perpetratori per liberarli dalla colpa. Diversa ed eguale al senso di colpa contro il quale combatte Vichuta, sopravvissuta alla follia Kmera in Cambogia. Una giustizia che viene dai margini, dalle donne sfruttate ed escluse dell'india cosi come dai resistenti del messico zapatista e comunitario di Sylvia; e che ritorna all'Iraq, di Eman, per ricordare come le guerre per la democrazia uccidano più della tirannide dichiarata.

Una nuova e dunque diversa, più umana giustizia per i balcani di Staša, delle donne in nero, che vede come la trappola del paternalismo socialista si sia reinventata nel capitalismo, proponendo indifferenza contro solidarietà, terrore globale contro terrori locali. O la ricostruzione, nelle parole di Biljana, del centro di studi delle donne di Zagabria, di rete emozionali, di spazi sicuri dove ritrovare la propria umanità e liberarsi dell'alienazione del pensiero occidentale che riduce tutto a leggi, norme, regole, standard.

Per 4 ore 60 donne immaginano una giustizia che non usi le parole consumate della democrazia e della cooperazione allo sviluppo. Rivendicano il diritto ad un immaginario che dia voce alle comunità dimenticate, che riveli la trama delle cose e non si faccia abbagliare dai riflettori puntati sul singolo mostro. Il tribunale delle donne per i Balcani è tutto qui, in questa corrente di energia che fonda la propria resistenza sulla disobbedienza e la riconciliazione.

Valentina Pellizzer inviata di Unimondo

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