Burundi: scontro non solo etnico

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Preoccupa il clima di violenza che è andato crescendo in Burundi da quando lo scorso anno il presidente, Pierre Nkurunziza, è stato rieletto per un terzo mandato in violazione della Costituzione. Arresti sistematici di oppositori, eliminazione di chi è critico con il governo, ritrovamento di fosse comuni sono, per alcuni osservatori, segni premonitori di una deriva che può condurre a uccisioni su larga scala. C’è chi teme si riaffacci, a parti invertite, il genocidio del 1972.

Questa ipotesi, che pure non si può escludere del tutto, non sembra però poggiare su fondati presupposti. Nel 1972 ci fu un conflitto etnico e avvenne il massacro di hutu per mano della minoranza tutsi allora al potere. La ripetizione di quella tragedia sarebbe difficile da attuarsi dopo gli accordi di Arusha, nel 2000, che hanno consentito la condivisione del potere trovando un equilibrio su base etnica. Nel governo come nell’esercito, agli hutu spetta il 70% dei posti chiave, ai tutsi il 30%. Da rilevare che gli hutu rappresentano l’85% delle popolazione, i tutsi il 14%. A differenza del vicino Rwanda – paese gemello per lingua, cultura e composizione etnica, e questo potrebbe trarre in inganno anche l’“esperto” – in Burundi l’intreccio hutu-tutsi è più complesso, ed effettivo per certi aspetti, anche per via di frequenti matrimoni interetnici.

Lo scontro è oggi più politico che etnico. Per dire, il fallito colpo di stato del 13 maggio dello scorso anno è stato organizzato da un militare hutu. E poi sia in parlamento sia nelle file del Cnared, il movimento che riunisce la maggior parte degli oppositori politici contro la deriva autocratica di Nkurunziza, la composizione etnica è “meticciata”.

Contro il sistema di potere di Nkurunziza militano tutsi e hutu. E i più critici sono i giovani, urbanizzati e non, che non trovano lavoro anche se hanno in mano un titolo di studio. Lo scontento monta pure tra le masse di contadini sempre più impoveriti, esclusi dai benefici della modesta crescita del prodotto interno lordo. Il regime naturalmente reagisce. C’è uno stillicidio di atti repressivi e di uccisioni, attuato dalle forze di polizia spalleggiate dalle ancor più temibili milizie imbonerakure, composte da giovani militanti del partito del presidente, che si chiama nientemeno Consiglio nazionale per la difesa della democrazia – Forze per la difesa della democrazia (Cndd-Fdd). Senza dimenticare che Nkurunziza può contare, oltre che sul sostegno di “democrature” come Congo, Rd Congo, Uganda, anche sullo sguardo benevolo della Francia. Parigi si smarca volentieri dalle politiche europee e dalle direttive internazionali perché interessata a mantenere la regione nella propria orbita geopolitica: dopo aver perso nel 1994 il Rwanda (oggi il regime di Paul Kagame è un controllato speciale, ma pur sempre “benedetto” dagli Stati Uniti) non intende mollare la presa sul Burundi.

Di fronte a questo scenario, la comunità internazionale si è mossa. Ma Nkurunziza continua a respingere la proposta di un contingente di peacekeeping internazionale, avanzata dall’Onu e dall’Unione africana. Non vuole intrusi in casa, cioè non accetta controlli di sorta. E giustifica il rifiuto, affermando che il paese è in pace (anche se solo al 95%!) e non è minacciato da nemici esterni (se non potenzialmente dal Rwanda, con il quale c’è una storica conflittualità). Ma Onu e Ua non possono esimersi dall’esercitare la loro pressione diplomatica sul governo burundese perché torni a negoziare con le forze dell’opposizione. In linea con gli accordi di Arusha, sottoscritti anche grazie alla mediazione sudafricana, che rimangono il punto di riferimento fondamentale per riportare pace nel paese.

Un’altra forma di pressione sul governo sarebbe l’adozione da parte dell’Onu di un embargo sulle armi. In Burundi circolano troppe armi, più o meno leggere, che costituiscono una minaccia alla sicurezza dei cittadini e pregiudicano il percorso verso la ricerca di una soluzione non violenta allo scontro politico in atto. Anche l’opinione pubblica internazionale può dare un contributo a una soluzione negoziata, se fa lo sforzo di non dimenticarsi di questo piccolo paese dell’Africa dei Grandi Laghi, se si aggiorna sull’evolvere dei fatti, se sostiene chi sul terreno (è il caso di quella Chiesa cattolica di base non schierata con il regime) lavora ogni giorno per trovare una via d’uscita condivisa.

Da Nigrizia.it

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