Indonesia: disarmo ad Aceh e la crisi del petrolio

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Dopo i 2500 militari già ritirati nelle ultime settimane dal governo indonesiano, altri 800 - su un totale di 30.000 - hanno festosamente lasciato ieri la regione di Aceh; rispettando gli accordi di pace firmati poco più di un mese fa a Helsinki, Giakarta continua a ridurre le truppe impegnate da 29 anni in un conflitto con i ribelli locali che, secondo le stime correnti, ha provocato almeno 15.000 morti. Il governo risponde in tal modo alla consegna di circa un quarto delle armi del Free Aceh Movement (Gam) che ha dichiarato di possederne 840 e dovrebbe consegnarle tutte entro la fine dell'anno, completando le quattro fasi di disarmo previste. Sono stati gli osservatori di pace europei e del sud-est asiatico dell' Aceh Monitoring Mission (Amm), a prendere in consegna 279 'pezzi', scartandone 30 che non corrispondevano ai parametri stabiliti e ordinando una verifica di altri 23.

La rimozione delle truppe e la simultanea consegna delle armi avverranno entro la fine dell'anno in quattro fasi diverse, sotto il controllo di osservatori europei e del sud est asiatico. Attualmente ad Aceh sono presenti più di 40mila soldati e 15mila poliziotti. Secondo il trattato una volta ultimato il ritiro rimarranno nella regione 14.700 soldati e 9.100 poliziotti; tutte le armi in possesso dei ribelli dovranno essere consegnate e distrutte. Nonostante Jakarta abbia dichiarato di trovarsi d'accordo con il numero di armi segnalato, circa un quarto del totale, responsabili della Camera dei Rappresentanti e dell'intelligence nazionale hanno istituito una commissione con il compito di verificare la corrispondenza tra le armi dichiarate e quelle effettivamente possedute dai membri del GAM. Se il processo di pace non si interromperà, il dramma dello 'tsunami' del 26 dicembre 2004 - che in quasi trent'anni ha fatto ad Aceh più di 130.000 vittime e ha lasciato mezzo milione senza dimora - sarà servito per lo meno alla causa della pace.

La popolazione di questa provincia ricca di petrolio combatte dal 1976 con le armi per la propria autonomia. Ma l'Indonesia è sotto pressione per la poca disponibilità di petrolio. Da paese produttore di petrolio (fa parte dell'Opec) ne è diventato importatore visto che la sua economia cresce a un tasso del 6%. E poiché il greggio è caro e si paga in dollari, la Banca centrale ha dovuto comprarne vendendo rupie, tanto da far collassate la moneta, arrivata a quota 11,750 per dollaro. Per questo il governo ha preso una rapida decisione di politica finanziaria: aumento del costo del denaro di 75 punti base per ridurre l'inflazione (al 7,8%) e costruire una cinghia di protezione attorno alla rupia. Ma visto che le regole dell'economia da sole non bastano, Yudhoyono è andato in televisione per dire che non leverà i sussidi a gasolio e benzina che rendono i carburanti molto economici per gli indonesiani. Ma gli osservatori già parlano di una crisi all'orizzonte e, dicono, potrebbe ripetersi quello che già si vide nel '97. A causa del petrolio? In parte. Ma non tutti pagherebbero in modo uguale. Si comincerebbe dalla fragile Indonesia e poi su, fino a Singapore, Thailandia e, forse, persino Taiwan. Si salverebbe, dicono, la forte Australia e la virtuosa Malaysia che, dal '97 in avanti, ha fatto una rigorosa politica finanziaria, udite udite, respingendo al mittente tutti i consigli dell'Fmi. Insomma oriente non più rosso ma a tinte fosche. Anche perchè fino a ieri o l'altro ieri tutti gli analisti finanziari consigliavano di investire in Asia. [AT]

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