Un migrante maliano: la partenza, il carcere libico e il ritorno

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Foto: L. Michelini ®

Il Mali è uno dei paesi più poveri dell’Africa sub-sahariana. Giusto per avere un’idea delle condizioni di vita degli abitanti di questo paese, basta considerare che un insegnante di un liceo privato non guadagna neanche 200.000 fcfa (circa 300 euro) e la percentuale di popolazione che vive in una bidonville in ambito urbano è pari al 47% (Banca Mondiale, 2018). 

La mancanza di lavoro, l’instabilità politica e l’insicurezza, spingono molti giovani a partire. 

M. Konate, giovane maliano di 25 anni, ci accoglie nel cortile della sua casa. Accanto a lui una donna sta lavando dei panni e una pentola fumante avvisa che è quasi ora di pranzo. Un rivolo d’acqua scura attraversa il cortile, lasciando dietro di sé un odore pesante. Siamo in un quartiere popolare di Bamako, capitale del Mali, e Mohamed è un giovane che dopo aver tentato la via per l’Europa passando per la Libia, dopo molte disavventure ha deciso di fare ritorno a casa.

Il ragazzo ci parla della sua storia, in quanto migrante e in quanto rimpatriato volontario. 

“Sono partito nel 2017”, inizia a spiegare M. Konate. “A quel tempo non lo sapevo, ma ho capito in fretta che appena lasci Gao (città del Mali orientale ndr) inizia la sofferenza: da là in poi ti rendi conto di quanto la migrazione sia difficile”. 

Va avanti M. Konate: “Ho fatto rotta per il nord, attraversando il cosiddetto Azawad, fino ad entrare in Algeria ad El-Khalil. Sono riuscito ad attraversare indenne il deserto su un fuoristrada assieme ad altre persone e, dopo un anno e mezzo passato a lavorare, ho trovato i soldi per pagare un passeur che mi ha fatto arrivare in Libia”. Finché parla, dalla tenda che separa il patio esterno dall’ingresso della sua abitazione spuntano delle facce di alcuni bambini incuriositi dalla conversazione in corso.

A Tripoli c’è un sistema di reclutamento braccianti chiamato chadman, spiega M. Konate: “La mattina i migranti in cerca di lavoro si riuniscono in un punto prestabilito dai libici, che ti vengono a cercare per darti degli impieghi giornalieri, solitamente nell’agricoltura o nell’edilizia. Ma a fine giornata spesso capita che il tuo datore di lavoro libico ti chieda «Vuoi i soldi o la prigione?». A quel punto se rispondi «I soldi» ti trascinano direttamente in carcere, ma se rispondi «Non voglio niente», torni a casa. Senza paga, ma libero”. 

La prigione purtroppo non è riuscita a evitarla Konate. “Un giorno mi hanno rubato tutti i risparmi e trascinato in carcere. Le prigioni libiche altro non sono che delle strutture chiuse, tanto improvvisate quanto illegali. Dormi per terra o su materassi pieni di pulci, ti danno poco da mangiare e se vuoi uscire devi trovare il modo di pagare un riscatto. Ho dovuto chiedere aiuto alla mia famiglia, che mi ha fatto arrivare con un enorme sforzo 300.000 fcfa (circa 460 euro) per la cauzione”.

Nel descrivere l’orrore di quei giorni passati nella prigione libica è costretto a fare una pausa per riprendere fiato.

Konate, che parla bene francese, cosa rara e non scontata in un paese dove il tasso di alfabetizzazione non raggiunge neanche il 40% (UNESCO, 2018), ci spiega che una volta tornato in libertà, ha lavorato come muratore per diversi mesi prima di riuscire a racimolare i 350.000 fcfa (circa 530 euro) necessari a garantirsi un posto su un gommone insieme ad altre 95 persone”. 

Dopo qualche ora dalla navigazione, l’imbarcazione sulla quale si trovavano è stata intercettata. “Erano i libici. Ci hanno fatti tornare indietro, picchiando la gente per farla smontare”, spiega il ragazzo. 

Oggi M. Konate si occupa di agricoltura. Fa molta fatica ad arrivare a fine mese e continua a vivere in uno stato di elevata povertà, ma almeno la terra da coltivare e le piante di cui prendersi cura rappresentano per lui una ragione per restare e non partire nuovamente. 

Conosco tante di quelle persone che vogliono partire, ma io gli dico che è troppo doloroso migrare. Ai miei amici consiglio al massimo di spostarsi in Algeria, che è mille volte meglio del Mali perché almeno lì c’è lavoro, ma senza raggiungere la Libia”, conclude M. Konate. “La Libia è un inferno”.

Lucia Michelini

Sono Lucia Michelini, ecologa, residente fra l'Italia e il Senegal. Mi occupo soprattutto di cambiamenti climatici, agricoltura rigenerativa e diritti umani. Sono convinta che la via per un mondo più giusto e sano non possa che passare attraverso la tutela del nostro ambiente e la promozione della cultura. Per questo cerco di documentarmi e documentare, condividendo quanto vedo e imparo con penna e macchina fotografica. Ah sì, non mangio animali da tredici anni e questo mi ha permesso di attenuare molto il mio impatto ambientale e di risparmiare parecchie vite.

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