Sud Sudan, non c’è pace

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Che il Sud Sudan abbia grandi problemi da risolvere è cosa ben nota a tutti: le notizie che la stampa occidentale passa sono scarse e normalmente piuttosto edulcorate, vuoi per l’assenza di corrispondenti occidentali in loco, vuoi per lo scarso interesse che i proprietari dei “media” hanno a divulgare notizie che po­trebbero disturbare i sonni dei clienti dei mercati.

Facciamo un piccolo passo indietro. A metà aprile, dopo sei mesi dagli accordi presi ad Addis Abeba dai contendenti (il presidente Salva Kiir, dell’etnia Dinka e il suo rivale Riek Machar, dell’etnia Nuer) con la collaborazione e l’intervento di USA e Gran Bretagna, mesi trascorsi in attese, giochini, rinvii e così via, si era aperto lo spiraglio dell’attuazione della pace, con il rientro in patria di Machar e la possibile costituzione di un governo di unità nazionale di pacificazione ed a cui avrebbero dovuto partecipare anche le altre etnie maggiori, come i Bari.

Attribuite le cariche principali, in cui il presidente è rimasto Salva Kiir, con due vicepresidenti (Machar, come già prima della guerra, e il gen. Wani Igga, fedele del presidente, ma presumibilmente moderato) si è cominciato ad allestire il nuovo governo, che è però stato costituito con una stragrande maggioranza di uomini del presidente e quindi molto simile a quello che aveva già fallito prima della guerra civile.

L’8 luglio a Juba ci sono stati i primi spari tra l’esercito regolare SPLA e gli uo­mini dell’esercito fedele a Machar, sembra provocati dai primi: domenica 10 lu­glio, alla fine della “battaglia” si sono contati oltre 200 morti, secondo la stam­pa occidentale, e un migliaio secondo fonti locali.

Nel mese trascorso ad oggi la vita è stata segnata dal terrore, dalle violenze, soprattutto private, e dalle razzie da parte dei militari delle due parti, dall’assenza di una volontà di rappacificazione o, quanto meno, di evitare soffe­renze ai civili. I soldati dell’esercito regolare, come quelle dell’esercito “in opposizione”, come si è autodefinita la parte fedele a Machar, non sono pagati da mesi e forse anni ed attuano le leggi di guerra antiche: i soldati si pagano con le razzie e gli stu­pri. L’ONU è presente in Sud Sudan con la spedizione UNMISS, praticamente iner­me ed impossibilitata, ancorché non autorizzata ad intervenire: la domanda che sorgerebbe spontanea è “cosa ci stanno a fare?”… ma non è il momento di polemizzare su questo.

Altre domande sorgono lecite.

Primo dubbio. Il presidente Salva Kiir è oggetto di indagine da parte della Corte Internazionale dell’Aja per genocidio e crimini di guerra: come si può continua­re a tenerlo come garante di una pace che lui stesso ha rotto più volte, che non ha mai osservato le decisioni sottoscritte con i rivali e con le garanzie di USA e GB?

Chi sostiene Salva Kiir? Il primo è sicuramente il presidente ugandese Musewe­ni, che tende a mantenere costantemente un contingente militare in Sud Su­dan “per difendere gli interessi ugandesi sul posto” (sue dichiarazioni dello scorso anno). Ma Museweni è il “referente” primario degli interessi anglo-ame­ricani nell’area, anche se poi non riesce nemmeno a tenere libera l’unica strada di comunicazione tra Uganda e Sud Sudan da banditi, soldati sbandati e crimi­nali vari, costringendo chi deve andare da Juba in Uganda a prendere un ae­reo, costosissimo, da Juba a Nairobi e poi a farsi una notte di viaggio in bus o a prendere un altro aereo da Nairobi ad Entebbe… e proseguire, magari per Gulu, che è nel nord dell’Uganda in direzione appunti del Sud Sudan…

Un ulteriore quesito, ma più sottile, forse pretestuoso, che mi pongo: ma che interesse possono avere USA e GB a far fare la pace a due contendenti di una guerra civile in cui si usano quasi esclusivamente armi anglo-americane?

Un gravissimo problema, già accennato, è quello delle violenze contro i cittadini inermi: sono mesi che i cittadini del Sud Sudan, soprattutto dagli stati Nuer del nord (Upper Nile, Jonglei) sono sfollati verso sud a causa delle violenze subite da parte dei Dinka, soldati del presidente e pastori, e negli ultimi anni hanno raddoppiato la popolazione di Juba e dintorni. Questi profughi “interni”, come li definisce il linguaggio burocratico ufficiale, sono ormai due milioni, con oltre cinquecento mila persone a rischio fame, ed una maggioranza di bambini che vivono di nulla. Negli ultimi due o tre mesi sono cominciate a ricomparire se­gnalazioni di casi di colera: gli eserciti hanno bloccato immediatamente le pos­sibilità di ingresso di aiuti e stanno impedendo “corridoi umanitari”.

I giochetti e i ricatti veri e propri tra le due etnie al potere non hanno fine; le violenze contro i civili sono all’ordine del giorno e servono da arma di ricatto nei fantomatici accordi che vengono anch’essi utilizzati non per ricostruire, o meglio per costruire, questa nuova nazione, ma per gli interessi dei contenden­ti verso il potere ed il petrolio.

Notizia dell’altro giorno: il ministro delle finanze ha chiesto alla Cina un prestito di circa due miliardi di dollari, da restituire con forniture di petrolio, soldi che dovreb­bero servire a costruire infrastrutture che non esistono (strade, oleodotto, ecc.). Sarebbe forse una prima via di rinascita, ma forse prima di ripartire sa­rebbe ora di cambiare i cavalli che tirano ognuno dalla sua parte.

Paolo Merlo

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