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Miti che muoiono
Conflitti
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La scorsa settimana si è ricordato il cinquantesimo anniversario dell’uccisione di Ernesto Che Guevara, avvenuta in Bolivia il 9 ottobre 1967. Il mondo nel frattempo è completamente cambiato. Certamente le aspirazioni e gli ideali del rivoluzionario argentino non sono tramontati. L’oppressione di molti popoli continua. Per certi versi si è acuita. Forse perché è scemata la speranza di sovvertire tale situazione sia attraverso le armi sia mediante “riforme” democratiche.
Il mito del Che però resiste. Guevara, morto giovane, reso immortale da alcuni storici scatti fotografici, esaltato in decine di canzoni, colto, bello, idealista, è diventato uno degli ultimi eroi del nostro tempo. Per l’America Latina è ancora una presenza reale, significante. Diversa la nostra percezione: il medico di Rosario è entrato nel pantheon pop dell’ipermodernità, dentro “quell’unica grande chiesa”, che appunto passa “da Che Guevara e arriva fino a madre Teresa”, secondo il verbo di Jovanotti contenuto nel suo pezzo rap “Penso positivo”.
Il Che, rappresentato in un’immagine che rinvia direttamente al “Cristo morto” di Mantegna, oppure replicato all’infinito – con il basco, la stella e lo sguardo rivolto verso l’avvenire -, è però ormai distante da noi. Appartiene ormai a una mitologia atavica che si sposa con un residuo di immaginario cristiano. Guevara è un martire, avulso dal tempo. La sua visione era messianica: dopo una breve esperienza di governo a Cuba (come presidente della banca cubana e poi come ministro dell’industria) preferisce la via di una nuova lotta sul campo, anticipata da febbrili scritti “dottrinali”. Guevara voleva niente meno che costruire “l’uomo nuovo socialista” capace di andare oltre l’egoismo per aprirsi alla solidarietà verso l’altro.
Oggi dobbiamo descrivere i rivoluzionari in sedicesimo, quelli che vogliono l’indipendenza pensando di fare una scampagnata tra amici. Non saprei dire se per disgrazia o per fortuna, hanno dimenticato la massima di Mao Zedong per cui “la rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia, la rivoluzione è un atto di violenza”. Ma il Grande timoniere potrebbe aiutarci a fare un bagno di realismo. E forse a capire che la violenza, tanto stigmatizzata a parole, può di colpo arrivare, quasi senza accorgercene.
La storia non si ferma, così si dice anche nel caso catalano. La storia, purtroppo, passa sopra i cadaveri. Non dobbiamo dimenticarlo. La rivoluzione implica la forza. Oggi veste i panni del nazionalismo. A Barcellona lo ha ricordato il premio Nobel per la letteratura Vargas Llosa: “La passione peggiore di tutte, che ha causato già grandi stragi nel corso della storia, è la passione nazionalista (che) ha riempito la storia d'Europa, del mondo e di Spagna di guerre, di sangue e di cadaveri”.
Ugualmente siamo come storditi a vedere il moltiplicarsi dei conflitti, il dilagare del metodo “Trump – Kim Jong Un” nella incendiaria “gestione” dei conflitti: insulti, minacce, iperboli, fuoco e furia, mare di fiamme… Un linguaggio bellico, grottesco, delirante, ma forse ancora più pericoloso rispetto alle tensioni della Guerra fredda. Cuba ne è proprio un esempio: probabilmente nel 1962 Kennedy e Chrusev sapevano della possibile catastrofe a cui stavano andando incontro e così l’hanno evitata.
Oggi la rivoluzione sembra essere una barzelletta. L’inquietante dilettantismo di politici di ogni sorta e colore testimonia il marasma in cui siamo immersi. Destra e sinistra si inseguono in una tendenza estremista, tanto temeraria quanto forse neppure capita dai protagonisti stessi. Tutto fa brodo, tutto viene confuso: indipendentismo, autonomia, autodeterminazione, federalismo, democrazia, stato di diritto. Anche alcuni nostri rappresentanti trentini, che siedono in Provincia, rincorrono forsennati questa regressione globale, cullandosi nel frattempo in mitologie autonomistiche, confinanti in un millenarismo veramente fuori luogo (persino i leghisti Zaia e Maroni sono esempi di maggiore moderazione!).
Abbiamo bisogno di miti. Che purtroppo non sono le persone che praticano la virtù della mitezza. Sono gli idoli che, biblicamente, sono “costruiti da mani d’uomo” e da soli non parlano e non sentono. Sono simulacri indifesi. Sono animati da sempre nuovi burattinai. “Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”. Proprio oggi dovrebbe risuonare questa frase di Brecht. Però abbiamo bisogno di punti di riferimento reali, non immaginari. Ad ogni livello. L’epoca delle grandi narrazioni – e delle grandi speranze – sembra alle nostre spalle. Siamo invece di fronte a frasi elementari, sconclusionate, violente e volgari. Abbiamo bisogno di nuove grandi idee rivolte responsabilmente al futuro e di rimanere saldi in esse.
Tuttavia, se è difficile fare una diagnosi del nostro tempo, ancora più difficile cercare una terapia. Ci aiutano forse meglio di tanti ragionamenti eruditi, tre versi di una canzone di Venditti: “E non c'è tempo per cambiare/ tempo per scoprire/ un nuova illusione”.
Articolo parzialmente pubblicato sul “Trentino”
Piergiorgio Cattani

Nato a Trento il 24 maggio 1976. Laureato in Lettere Moderne (1999) e poi in Filosofia e linguaggi della modernità (2005) presso l’Università degli studi di Trento, lavora come giornalista e libero professionista. Scrive su quotidiani e riviste locali e nazionali. Ha iniziato a collaborare con Fondazione Fontana Onlus nel 2010. Dal 2013 al 2020 è stato il direttore del portale Unimondo, un progetto editoriale di Fondazione Fontana. Attivo nel mondo del volontariato, della politica e della cultura è stato presidente di "Futura" e dell’ “Associazione Oscar Romero”. Ha scritto numerosi saggi su tematiche filosofiche, religiose, etiche e politiche ed è autore di libri inerenti ai suoi molti campi di interesse. Ci ha lasciati l'8 novembre 2020.