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La testimonianza di due giovani migranti maliani
Conflitti
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Foto: L. Michelini ®
Avere la possibilità parlare con i migranti che, obbligatoriamente o no, sono costretti a fare rientro nei loro paesi d’origine è una possibilità preziosa che aiuta a capire meglio le motivazioni che spingono ogni anno numerosi maliani a intraprendere il tentativo della migrazione verso il cosiddetto paradiso occidentale.
Due migranti che recentemente hanno provato a raggiungere rispettivamente l’Italia e la Spagna ci offrono la loro testimonianza.
T. Kone, classe 1992, ha vissuto gli orrori della Libia nella speranza di raggiungere la Sicilia e diventare un aiuto economico per la sua famiglia rimasta in Mali: “Nel 2018 ero ancora uno studente, ma la povertà era tale che mi sembrava che pagarmi gli studi fosse uno spreco di denaro, tanto poi si sa, il lavoro non c’è comunque. Così mi sono messo in contatto con un maliano che si trovava in Libia e mi ha spiegato come raggiungerlo. Mi ha fornito le informazioni per organizzare il viaggio, i contatti. Un mese dopo ero a Tripoli”, spiega T. Kone.
Per mettere da parte i soldi per il posto sul gommone, il ragazzo ha lavorato per un anno in un allevamento di polli. “Mi svegliavo tutte le mattine alle cinque per raccogliere le uova che poi venivano mandate in Europa. Ma un giorno, tornando a casa dal lavoro, mi hanno catturato e portato in prigione”. Nel periodo passato rinchiuso in carcere, T. Kone ha preso degli appunti su un piccolo quaderno che sfoglia mentre ricorda quei giorni. La prima pagina inizia così:
“Mercoledì 21 agosto 2019. Libia. Allah e il tuo profeta Maometto, vi prego, aiutateci a lasciare questo inferno. Veramente, chi ha la pelle nera qua soffre molto. I libici ci torturano, ci uccidono. Siamo costretti a bere l’acqua della latrina, non mangiamo regolarmente, dormiamo e facciamo i nostri bisogni nella stessa stanza. La vita qua è catastrofica. La Libia è pericolosa, i diritti umani non sono rispettati”.
Nella cella dove si trovava T. Kone, assieme ad altre 70 persone rinchiuse in uno spazio grande poco più di 20 metri quadrati, il cibo non era sufficiente e i prigionieri non avevano la possibilità di uscire neanche per andare in bagno.
Una storia diversa, ma anche questa altrettanto significativa per quanto dolorosa, arriva dalle parole di A. Touré, ragazzo venticinquenne che ha passato più di cinque anni a Nouadhibou, in Mauritania, per cercare da lì di raggiungere la Spagna. “Avevo una piroga, con la quale praticavo la pesca del polpo, ma in realtà era un’attività di copertura. Stavo aspettando il momento buono per usare quell’imbarcazione come mezzo di trasporto verso le Canarie”.
Dopo vari tentativi andati mali, A. Touré si è scoraggiato ed è tornato in Mali. “Non avevo più speranza, moralmente non avevo più le forze per continuare a tentare. Ho visto una tale quantità di cose orribili in quelle acque: piroghe attaccate dagli squali e navi cargo colpire ed affondare le barche dei miei compagni senza che neanche se ne rendessero conto. Tanti miei amici sono morti in quelle acque”.
I giovani che rientrano dall’Europa, o da un tentativo di migrazione non riuscito, si portano con sé quasi sempre traumi psicologici e sofferenze non facili da dimenticare.
A Diago, regione di Koulikoro, Mali, dei migranti di ritorno hanno fondato un’associazione che si chiama appunto Associazione dei Migranti di Ritorno del Circondario di Kati (Association des Migrants de Retour dans le Cercle de Kati - A.M.R.C.K.) e che ha lo scopo di scoraggiare la migrazione clandestina. Nel direttivo una trentina di ragazzi ed altrettante storie da offrire come esempio nelle giornate di formazione che organizzano per i giovani.
“Ci rechiamo nelle scuole, soprattutto verso la fine dell’anno, il momento più propizio per partire e facciamo molta sensibilizzazione: spieghiamo tutte le difficoltà del viaggio, dalla partenza al ritorno. Non diciamo che partire sia vietato ma, per quanto difficile, lo si dovrebbe fare legalmente, altrimenti si rischia di incontrare solo dolore. Noi, che quel dolore lo abbiamo conosciuto, vogliamo combatterlo”, conclude uno dei membri dell’associazione.
Lucia Michelini

Sono Lucia Michelini, ecologa, residente fra l'Italia e il Senegal. Mi occupo soprattutto di cambiamenti climatici, agricoltura rigenerativa e diritti umani. Sono convinta che la via per un mondo più giusto e sano non possa che passare attraverso la tutela del nostro ambiente e la promozione della cultura. Per questo cerco di documentarmi e documentare, condividendo quanto vedo e imparo con penna e macchina fotografica. Ah sì, non mangio animali da tredici anni e questo mi ha permesso di attenuare molto il mio impatto ambientale e di risparmiare parecchie vite.