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Istantanea dall’Europa dell’euro
Banca mondiale e Fondo monetario (Fmi)
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Al punto in cui è l’Europa dell’Euro o, più esattamente, al punto in cui è la crisi bancaria, dei debiti sovrani e delle economie dei paesi mediterranei (ma non solo) dell’area dell’Euro ed al punto in cui è l’incapacità di farvi fronte della Banca Centrale Europea, della Commissione Europea e del Consiglio Europeo, nonché dei singoli Governi degli Stati di quest’area (anche perché le cause della crisi oltrepassano le capacità di intervento di questi ultimi), diviene sempre più chiaro che l’Unione Europea e gli Stati che vi appartengono sono di fronte ad un bivio: o essi compiono un deciso balzo in avanti verso l’integrazione europea e la creazione (almeno) dei fondamenti di uno stato federale oppure sarà la forza delle cose ad imporre un deciso ritorno al passato, vale a dire a Stati autonomi e pienamente sovrani ognuno dei quali possa cercare la salvezza per conto suo, anche a scapito del benessere degli altri, così come è stato (purtroppo) per secoli.
I mercati, a partire dal 2008, hanno scoperto il “bluff” storico di quella sia pure meravigliosa costruzione dal punto di vista tecnico che è l’Euro: una moneta senza uno Stato unitario e senza una Banca Centrale nella pienezza di quei poteri di intervento e controllo che sono stati elaborati nel corso dei due secoli passati lascia gli Stati che la usano in balìa dei mercati finanziari e degli speculatori che in essi operano, per cui questi possono spremere i primi come limoni, prima di abbandonarli al loro destino. Questo accade perché una moneta adottata da diversi Stati che mantengono la propria sovranità in materia fiscale, sociale ed economica non riduce ma esalta gli squilibri fra gli Stati “virtuosi”, dove “virtù” sta essenzialmente per competitività dell’economia ed equilibrio della finanza pubblica, e gli altri, che vedono decadere la loro capacità competitiva e deteriorarsi la finanza pubblica, nonostante i grandi sacrifici (in termini di maggiori tasse e di minori prestazioni pubbliche) imposti ai loro popoli.
Ebbene, questo è, sostanzialmente, ciò che è avvenuto nell’area dell’Euro nell’ultimo decennio. In esso la Germania ed alcuni altri paesi del centro e del nord Europa (Austria, Olanda, Danimarca, Finlandia), avendo economie molto competitive (e questo è un loro merito) ed avendo eliminato grazie all’Euro il rischio di cambio (e questa è una concessione senza contropartite che gli altri paesi hanno fatto loro e che non era qualcosa di dovuto o di ineluttabile), cioè il rischio di svalutazioni della moneta degli altri Stati, hanno dapprima accumulato grandi surplus della bilancia commerciale ed ora, avendo titoli del debito pubblico più sicuri stanno attirando sempre più anche grandi flussi finanziari che stanno abbandonando i titoli meno sicuri dei paesi mediterranei dell’area dell’Euro, riuscendo così a finanziare il proprio debito pubblico a tassi di interesse bassissimi mentre per gli altri i tassi sui loro debiti sovrani crescono in modo sempre più preoccupante.
L’inizio dell’elaborazione della teoria del commercio internazionale si deve storicamente all’economista inglese David Ricardo (1772 – 1823): da allora è stato chiaro che un paese che ha un surplus commerciale (perché esporta di più di quanto importa) e/o un surplus finanziario (perché i capitali, le attività finanziarie in ingresso superano quelle in uscita) si arricchisce, quindi i suoi abitanti, se questi soldi sono ben gestiti, hanno maggiori possibilità di vivere meglio (perché dispongono di più opportunità di lavoro e di una retribuzione più alta, di maggiore spesa pubblica e quindi di più servizi pubblici). Il contrario avviene per gli Stati con un deficit commerciale e/o finanziario.
Guarda caso, questo è ciò che è avvenuto all’Italia negli anni dell’Euro (anche se il deterioramento era iniziato prima): un paese strutturalmente trasformatore ed esportatore, quindi con un surplus commerciale durato mezzo secolo è diventato un paese con un deficit commerciale ed anche con un deficit finanziario di importo parecchio superiore a questo sulle voci che riguardano gli investimenti diretti esteri in attività produttive, gli investimenti di portafoglio in azioni ed obbligazioni e quelli effettuati dalle istituzioni finanziarie e monetarie (banche, ecc.). In altre parole, il nostro è un sistema economico che perde ricchezza a vantaggio di altri. E l’Euro ci impedisce di effettuare quelle svalutazioni competitive della moneta che, pur essendo uno strumento sleale, che non risolve le cause profonde della nostra scarsa competitività e che ha una efficacia limitata nel tempo, abbiamo usato per decenni per rilanciare il nostro export abbassando i suoi prezzi.
Questi problemi oggi li condividiamo con gli altri paesi mediterranei dell’area dell’Euro, ma anche con la Francia, mentre non abbiamo più il piacere della compagnia della Gran Bretagna, rimasta fuori dall’Euro e nei guai per motivi in buona parte differenti. L’altra idea che l’aggravarsi della crisi europea sta dimostrando errata, coltivata più dalle classi dirigenti politiche ed economiche europee che dalle opinioni pubbliche, è che da questa situazione si possa uscire grazie agli espedienti tecnici possibili sulla base dell’attuale assetto dei poteri europei, sia in senso politico che economico e finanziario.
In questo senso la situazione e l’opera di Mario Draghi sono emblematiche: pur avendo il Governatore della BCE portato brillantemente questa istituzione ai massimi limiti della sua operatività per rifinanziare il sistema bancario e pur avendo promesso qualche giorno fa (il 6 Giugno) liquidità illimitata per le banche europee, egli non può prendere quelle decisioni politiche essenziali per aprire una prospettiva di superamento della crisi, nemmeno quella, importantissima nel breve periodo per ridare ossigeno all’economia italiana (e non solo), che obblighi le banche destinatarie dei prestiti a non ridurre il volume dei crediti e ad espanderlo, per i soggetti meritevoli di ricevere dei prestiti, di qualche punto percentuale rispetto a quello in essere ad una data da definirsi (per esempio, il 30 Giugno 2011).
Da quanto abbiamo detto deriva che le decisioni politiche necessarie a non far collassare l’Euro e forse anche l’Unione Europea, vale a dire l’unificazione della vigilanza bancaria, l’attribuzione alla BCE del potere di essere il compratore di ultima istanza dei titoli del debito pubblico dei paesi che utilizzano questa moneta, la garanzia europea sui depositi, la riforma bancaria che torni alla distinzione netta fra attività bancarie (raccolta di depositi ed erogazione di prestiti) ed attività finanziarie (speculative) e, soprattutto, la messa in comune o la garanzia comune per almeno una parte dei debiti pubblici degli Stati membri (i c.d. Eurobond) da cui deriva necessariamente la messa in comune delle politiche fiscali, economiche e sociali dei singoli Stati non possono essere avviate se non si avvia contestualmente la soluzione del “problema dei problemi” dell’area dell’Euro: la scarsissima rappresentatività politica delle Istituzioni dell’Unione Europea.
Il Parlamento Europeo, democraticamente eletto, deve poter esprimere o deve vedersi affiancato un Governo Europeo democraticamente eletto e con poteri effettivi e vasti che sostituisca gradualmente la Commissione ed il Consiglio Europeo. Questo perché solo in uno stato unitario, con una moneta unica, vi è un vincolo di solidarietà che impone alle aree economicamente più forti di aiutare quelle più deboli e queste a migliorare la propria condizione sulla base di una omogeneità dei diritti sociali ed economici e degli obblighi fiscali.
Tutte le rivoluzioni borghesi (ed anche gran parte di quelle popolari o proletarie che dir si voglia) sono state fatte per le tasse e per i limiti o gli ostacoli posti all’attività economica . Al principio, elaborato attorno al 1750, su cui si fondò la rivoluzione americana “no taxation without representation” , traducibile (quasi) letteralmente con “solo ai rappresentanti eletti dal popolo è lecito imporre le tasse”, può essere data oggi una traduzione – interpretazione più evoluta ed adatta ai giorni difficili che stiamo attraversando: “solo ai rappresentanti eletti dal popolo è lecito fare scelte di politica economica nelle sue varie declinazioni: fiscale, finanziaria e bancaria, economico – produttiva, sociale nel senso di organizzazione del sistema di welfare”.
L’imposizione, come è avvenuto alla Grecia e che la Spagna sta disperatamente cercando di evitare, di misure insostenibili per restare a tutti i costi nell’Euro senza che i popoli possano dire la loro, ma solo perché “ce lo chiede l’Europa”, non può che portare, alla lunga, al collasso dell’Euro e forse pure dell’Unione Europea. Questo perché, prima o poi, i popoli si riprendono la sovranità. E si deve sperare che lo facciano democraticamente e per mezzo di partiti o movimenti di sicura fede democratica perché quello che c’è da temere, secondo me, non è tanto il “fascismo bianco” o “fascismo finanziario” che Giulio Tremonti indica nel suo ultimo libro, quanto un pericolo più tradizionale, vale a dire di movimenti populisti ed autoritari portati al potere dal malessere dei popoli che si vedono sprofondare nella recessione perché la politica non è capace di prendere una direzione precisa: un salto in avanti verso uno Stato federale europeo con la messa in comune delle finanze e delle economie dei singoli Stati oppure, se non si vuole o non si può fare questo, una uscita dall’Euro, con quel che ne conseguirà, sia in termini di rischi e di sacrifici, che di nuove opportunità.
Tutto sommato c’è da dire che i padri dell’Euro (Kohl, Mitterand, ecc.) avevano ragione quando pensavano che l’Euro avrebbe portato alla necessità di una sempre maggiore integrazione europea: omisero solo di dire che se non si percorreva questa strada l’alternativa logica era il collasso sia di questa moneta che, probabilmente (ma non sicuramente), dell’Unione. Ritornando alla citazione di Adriano Sofri che ho scelto come epigrafe per questo articolo, frase che apre il suo articolo di fondo su La Repubblica del 5 Giugno, l’avvio di questa evoluzione è in mano alla Germania. Speriamo che la sua opinione pubblica ed i suoi governanti comprendano che il collasso dell’area dell’Euro ridimensionerebbe anche i livelli di ricchezza e di benessere che questo paese ha raggiunto e che dei sacrifici a breve termine per stabilizzare e rilanciare i paesi in difficoltà dell’area dell’Euro significa più prosperità anche (e soprattutto, visto che ha l’economia più forte) per la Germania nel medio e nel lungo termine.
Gianfranco Visconti
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