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L’euro, un irrinunciabile punto di partenza
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Sono passati dieci anni da quando l’euro ha cominciato a circolare con monete di metallo e banconote di carta e non soltanto da uno schermo all’altro di un computer. Dieci anni da quando Prodi, uno dei maggiori sostenitori della moneta unica, era andato, così racconta lui stesso, in un chiosco di Vienna, insieme al cancelliere austriaco, a comprare un mazzo di fiori per la moglie, pagandolo in euro. Oggi molti rimpiangono il passato, sognando di ritornare alle monete nazionali che almeno consentivano svalutazioni competitive che davano ossigeno alla crescita economica di paesi dalla finanza ballerina e dal forte indebitamento pubblico, com’era l’Italia. Si stava meglio quando si stava peggio. Una tesi purtroppo condivisa da alcuni economisti ma soprattutto da semplici cittadini che hanno visto una perdita del potere d’acquisto dei salari, un aumento notevole dei prezzi ed infine, in questi ultimi mesi, hanno dovuto affrontare il salasso di manovre di aggiustamento dei conti pubblici molto sbilanciate nel colpire i ceti medio-bassi che però solitamente pagano le tasse. Il Codacons nel fornire dati inequivocabili stima che il potere di acquisto degli stipendi degli italiani è sceso del 39,7% dall’introduzione della moneta unica. Tutta colpa dell’euro dunque? Dovremo dare ascolto all’ex ministro Tremonti quando si diceva contento per il fatto che nelle zecche dello Stato fossero ancora state conservate le matrici per stampare le vecchie lire?
Andiamoci piano. Ragioniamo innanzitutto dal punto di vista politico. L’euro è stata una conquista storica sulla strada dell’Unione Europea: unificare anche solo a livello monetario (una prerogativa fondamentale degli Stati) nazioni diverse tra loro che solo alcuni decenni fa hanno combattuto una guerra spaventosa è un sogno la cui realizzazione dovrebbe renderci tutti orgogliosi. Un sogno che comunque è certamente ancora lontano dall’essere concretizzato. L’Europa politica è di là da venire, ma l’euro è un primo e fondamentale passo in avanti, un punto di partenza non di arrivo. Ma se saltasse questo decisivo sostegno tutto crollerebbe. Nella storia funziona così: una grande fatica per fare piccoli e lenti passi in avanti potrebbe essere vanificata in un istante. Un anno per tornare indietro di quaranta. Non serve scomodare politologi per comprendere che il ritorno alle divise nazionali sarebbe il prodromo alla messa in discussione della libera circolazione delle merci e quindi delle persone, sarebbe l’occasione per innalzare di nuovo i confini e per attizzare il fuoco tetro della rivendicazione di un’identità etnica e nazionalista, che non è mai stato completamente spento, come si vede dal caso dell’Ungheria. Il sogno di una vera Europa unita si infrangerebbe per sempre.
Per l’Italia l’Europa è stata sempre un esempio da seguire e quella autorità esterna che ci ha obbligato a cambiare stile in molti settori. Oggi l’80% delle leggi sono fatte a Bruxelles oppure incidono in maniera determinante sui provvedimenti adottati dai singoli stati. Occorre andare avanti in questo processo cercando di omogeneizzare le direttive e le leggi creando in prospettiva una vera giurisprudenza europea, già ampiamente presente, ma che deve coinvolgere i settori chiave della giustizia, dell’ambiente, della politica di difesa, della fiscalità. È necessario un passo in avanti per uscire dalla crisi, non uno indietro.
L’Europa ha costretto il nostro paese a fare i conti dapprima con decenni vissuti sopra le righe, caratterizzati dal “voto di scambio” democristiano con la classe media: appoggio alle elezioni con in cambio tutele delle categorie e privilegi di massa, pagati attraverso un crescente ed enorme debito pubblico. L’euro ci costringe a una disciplina finanziaria indispensabile per compiere vere scelte alternative di sviluppo. L’Europa ha fatto pressioni inaudite per rimuovere Berlusconi. È un intervento indebito sulla sovranità nazionale, come ha detto la destra e pure qualche esponente della sinistra? È uno sgambetto dei poteri forti che hanno sponsorizzato l’uomo delle banche Mario Monti? No, ancora una volta dovremo dire: grazie Europa.
A livello economico le conseguenze di un abbandono sarebbero, se si vuole, ancora più disastrose. Inimmaginabili. Come potrebbero 20 staterelli divisi tra di loro competere con la Cina o le potenze emergenti? Con lo scudo padano con l’effige di Bossi? Con i dazi doganali? Con svalutazioni su svalutazioni? Gli economisti più assennati dicono che anche la Germania si salverebbe a stento, mentre gli altri paesi vedrebbero la propria moneta deprezzarsi fino al 50%, l’inflazione galoppare con conseguente crollo (questa volta devastante) del potere di acquisto di salari e pensioni, la recessione si approfondirebbe e i nostri conti pubblici salterebbero in aria. Questo lo scenario. L’euro invece ha garantito al nostro paese quella solidità finanziaria grazie alla quale, per la prima volta, il nostro debito pubblico ha potuto scendere (soprattutto durante i governi Prodi): questa è la decrescita che ci piace.
Certamente quello che manca è una dirigenza politica europea all’altezza. Barroso non è Prodi. In questi ultimi anni le divergenze nelle politiche economiche hanno aumentato le disuguaglianze all’interno dell’eurozona rendendo l’equilibrio tra i vari paesi sempre più precario. Occorre unificare queste politiche, arrivare a progressive convergenze prima finanziarie, poi sul mercato del lavoro quindi su vere scelte di sviluppo basate sull’ambiente e sulle nuove tecnologie. Inoltre sono da includere anziché escludere le tigri europee come Turchia e Serbia, seppur con tutte le difficoltà da affrontare. Basta con la politica dei primi della classe. L’Europa è un sogno. Guai ad infrangerlo.