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Anche in Africa l’unione fa la forza
Banca mondiale e Fondo monetario (Fmi)
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Foto: Unsplash.com
“Aiutiamoci a casa nostra!”: la parafrasi di un abusato e vacuo slogan sovranista ben evidenzia lo spirito di un recente accordo fra 54 Paesi del Continente africano.
É il Trattato di Libero Commercio Continentale Africano, (in inglese African Continental Free Trade Agreement, abbreviato AfCFTA) entrato in vigore lo scorso 1° gennaio.
É un’intesa internazionale che regola l'apertura delle frontiere e la creazione di un'area di libero scambio tra i Paesi africani membri. Riunisce un'area che comprende il Mercato comune per l'Africa orientale e meridionale (COMESA), la Comunità dell'Africa orientale (EAC), la Comunità per lo sviluppo dell'Africa meridionale ( SADC), la Comunità economica degli Stati dell'Africa centrale (ECCAS), la Comunità economica degli Stati dell'Africa occidentale (ECOWAS), l'Unione del Maghreb arabo (UMA) e la Comunità degli Stati Sahelo-Sahariana (CEN-SAD): 30 milioni di chilometri quadrati per 1,3 miliardi di persone, separata dall’Europa dal Mar Mediterraneo, che é un ponte naturale fra i due Continenti.
L’accordo, firmato il 21 marzo 2018 a Kigali, in Ruanda, sarebbe dovuto entrare in vigore nel luglio scorso ma è stato rinviato a causa della pandemia di Covid-19, che ne ha ritardato l’applicazione.
Come ha scritto Agenzia Nova, “per entrare in vigore l’accordo necessitava della ratifica di almeno 34 Paesi africani (dei 54 complessivi) e, ad oggi, l’unico Paese a non averlo ancora firmato è l’Eritrea, mentre 20 Paesi, tra cui Tanzania, Burundi e Sud Sudan, lo hanno firmato ma non ratificato. L’ultimo Paese in ordine di tempo a convalidare l’accordo è stata la Nigeria, prima economia del Continente, che per mesi è stata assai scettica sull’efficacia di questo trattato, temendo che potesse in qualche modo danneggiare la sua economia, per lo più basata sugli introiti petroliferi.”
Essere uno dei più grandi mercati comuni del mondo. Questa è l'ambizione dell'African Continental Free Trade Area, che mira a riunire 1,3 miliardi di persone con una capacità finanziaria del peso di 3,4 trilioni di dollari. I suoi sostenitori lo considerano un'opportunità per stimolare il commercio tra Paesi vicini e creare una catena del valore specifica per il Continente.
Un rapporto della Banca mondiale pubblicato lo scorso luglio e intitolato “The African Continental Free Trade Area, economic and distributional effects”, sottolinea che “l’accordo, attuato integralmente, potrebbe far crescere il commercio interno del 52% nell’arco di due anni, aumentando il reddito continentale del 7%, ovvero di 450 miliardi di dollari; accelerando la crescita dei salari per le donne. Secondo le prime stime almeno 30 milioni di persone potrebbero uscire dalla povertà estrema entro il 2035. “
L' accordo può essere un meccanismo per costruire la resilienza a lungo termine del Continente africano.
Anche se dovrà confrontarsi con un certo numero di ostacoli. Un progetto che si scontrerà inevitabilmente con molti problemi endemici: cattivi collegamenti stradali e ferroviari, instabilità politica, complicate procedure amministrative alle frontiere, problemi di corruzione, o, addirittura, a causa di politiche protezionistiche di alcuni dei suoi membri, che potrebbero rallentarne lo sviluppo.
Ci sono dei paradossi che hanno i contorni della beffa, ma come in ogni farsa evidenziano i limiti di una triste realtà.
Come riportato dal sito Affari Internazionali, “ secondo Inye Briggs, principal Trade regulatory officer presso l’African Development Bank, spedire un’autovettura dal Giappone ad Abidjan (Costa d’Avorio) costa oggi 1500 dollari, mentre muovere lo stesso veicolo da Abidjan ad Addis Abeba (Etiopia) verrebbe a costare 5000 dollari. Analogamente, se occorrono solo 28 giorni per muovere un container da Shanghai in Cina al porto di Mombasa in Kenya, ne servono addirittura 40 perché lo stesso container raggiunga Bujumbura in Burundi dal Kenya. Con costi sette volte superiori.”
La speranza di un successo di questa grande operazione di solidarietà economico-sociale, non deve cadere nell’ansia di avere assolutamente dei risultati, costi quel che costi, a breve termine.
Alcuni osservatori, come W. Gyude Moore, ex ministro della Liberia diventato ricercatore presso il think tank del Center for Global Development (CGD), sottolineano come il lavoro sia appena iniziato. "Sarei sorpreso se tutto fosse a posto nei prossimi due anni", ha detto a Reuters. "In termini di successo a lungo termine di questo patto, penso che si debba guardare a quanto tempo ha impiegato l'Europa per realizzare il libero scambio. È un processo lungo decenni".
Nonostante tutto, i sostenitori più ottimisti del progetto ritengono che la sua applicazione, anche parziale, dovrebbe consentire ai Paesi membri di raddoppiare il commercio intra-africano entro il 2025.
É partendo da una constatazione, durante la 18a Sessione Ordinaria dell'Assemblea dell'Unione Africana nel gennaio 2012, sulla debolezza delle relazioni commerciali tra i Paesi africani, stimata solo al 16% contro il 70% circa con Europa e Asia, che è germogliata, e si é sviluppata, l’idea della creazione di un'area di libero scambio continentale africana.
Un patto che potrebbe anche spingere i Paesi africani a diventare più competitivi e consentire loro di evitare di essere sempre un'area di sottosviluppo, a vantaggio dei Paesi che esportano beni e servizi nel suo territorio, ricavandone benefici, soprattutto in termini di recupero, a basso costo, delle materie prime.
Sarà quindi utile a dare inizio all’affrancamento da un endemico sfruttamento da parte di neo-colonizzatori economici, come la Cina, o da parte di colonizzatori ante e e post indipendenza, come la Francia, che, in nome della “francofonia”, perdura nel depauperare le risorse, enormi, del Continente africano.
Sarà utile inoltre a potenziare delle competenze locali in un'ottica di industrializzazione e un aggiornamento dei testi giuridici applicabili negli Stati che d'ora innanzi terranno conto delle nuove forme di scambio e di approccio relazionale.
Autostima e convinzione delle proprie capacità possono essere un carburante efficiente per dare la giusta velocita al motore di un progetto che parte da una situazione di oggettiva debolezza.
Sempre sul sito Agenzia Nova si puo’ leggere che “secondo il Barometro business 2019, pubblicato il 9 maggio 2019 dall’istituto di sondaggi dell’Oxford Business Group (Obg), il 72 per cento degli imprenditori africani intervistati sono convinti che l’ AfCFTA avrà un impatto “positivo” o “molto positivo” sul commercio intra-regionale; l’84 per cento della base afferma di avere aspettative “alte” o “molto alte” sul clima affaristico locale nei prossimi anni, mentre il 78 per cento degli intervistati si dichiara pronto a fare investimenti significativi nei prossimi dodici mesi”.
Avere la cosapevolezza di “ come siamo” non puo’ che essere di valido aiuto a meglio comprendere di “come saremo”.
Come scritto nella testata online Africarivista, “La marginalità attuale dell’Africa risulta evidente dai numeri. I Paesi firmatari dell’accordo commerciano con i vicini per una minima parte del loro export: solo l’8% delle esportazioni è diretto da un Paese africano a un altro. In generale, poi, il peso del Continente nel commercio globale è ancora limitato: l’Africa ne rappresenta solo il 2,8% (nel 1970 il 4,3%) e così pure il PIL africano sul totale mondiale, eppure parliamo di un Continente che ha una popolazione pari oggi al 16,7% di quella globale e che è destinata a crescere con celerità nei prossimi decenni.”
Le previsioni annunciano che nel 2050 gli abitanti di questa area del mondo saranno 2,12 miliardi, con un ritmo di crescita 2,5 volte più rapido rispetto al resto del pianeta.
Anche la Banca Mondiale offre, in uno studio, dei dati meritevoli di riflessione, per un accordo “ in grado di rimodellare i mercati e le economie in tutto il Continente, portando alla creazione di nuove industrie e all’espansione di settori chiave. Il comparto che più trarrebbe vantaggio dall’implementazione dell’area di libero scambio sarebbe la manifattura (110% in più di commercio intra-regionale e 46% in più di esportazioni extra-continentali), seguito dall’agricoltura, soprattutto a livello intraregionale (+46%), e, in misura più modesta, dai servizi commerciali (+4% la media totale, +14% all’interno dell’Africa). Numeri importanti che danno un’idea precisa della rivoluzione che potrebbe scattare nel Continente nei prossimi anni. A beneficiare maggiormente di questa spinta in avanti, sarebbero Camerun, Egitto, Ghana, Marocco e Tunisia, con il raddoppio, e in alcuni casi la triplicazione, dei livelli economici nazionali odierni.”
In definitiva questo accordo di libero scambio potrebbe essere la chiave per fare uscire il Continente Africa dalla morsa di vecchi stereotipi e dall’abbraccio, non sempre fraterno, di nuovi ed ex colonizzatori.
Speriamo che non sia azzoppato da egoismi interni e da manovre esterne.
Ferruccio Bellicini

Pensionato, da una quarantina d’anni vivo nei Paesi della sponda sud del Mediterraneo: Algeria, prima, Tunisia, ora. Dirigente di una multinazionale del settore farmaceutico, ho avuto la responsabilità rappresentativa/commerciale dei Paesi dell’area sud del Mediterraneo, dal Libano al Marocco e dell’Africa subsahariana francofona. Sono stato per oltre 15 anni, alternativamente, Vice-Presidente e Segretario Generale della Camera di commercio e industria tuniso-italiana (CTICI). Inoltre ho co-fondato, ricoprendo la funzione di Segretario Generale, la Camera di commercio per lo sviluppo delle relazioni euro-magrebine (CDREM). Attivo nel sociale ho fatto parte del Comitato degli Italiani all’estero (COMITES) di Algeri e Tunisi. Padre di Omar, giornalista, co-autore con Luigi Zoja del saggio “Nella mente di un terrorista (Einaudi 2017).