Un vento tibetano dalla Cina

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Yunnan - Nell’incantevole città vecchia di Shangrilà ogni cosa rimanda ad usi e costumi tibetani. All’ingresso della cittadina si erge un tempio affiancato da un’enorme campana tibetana (la più grande al mondo). Nella piazzetta centrale signore in abiti tradizionali cucinano spiedini aspettando sera per unirsi alle danze tipiche di gruppo. Per le piccole vie venditrici di latte di Yak, legna accatastata vicino a porte bordeaux e una sfilata di negozi che offrono mala – il rosario buddista –, incensi e bandierine sacre colorate. Nell’aria sono tangibili le energie positive: esse, secondo la visione tradizionale tibetana, non si fermano mai nella loro danza attorno al paese, muovendosi sempre in senso orario, proprio come il simbolo della svastica buddista vuole.

La regione geografica del Tibet si estende su più province cinesi: la Regione Autonoma Tibetana– con capoluogo Lhasa –, la provincia dello Qinghai, dello Sichuan e dello Yunnan. Il territorio di quest’ultima, dove si trova una minoranza tibetana, è detto Khampa . È da qui, dal piccolo villaggio di Shu Song nei pressi di Shangrilà, che vi racconto la storia del tempio Tampas.

Fra verdi montagne a tremila chilometri di distanza dal mare , questo posto è una parentesi pacifica nel difficile rapporto sino-tibetano. Nella regione questo luogo è unico perché è popolato da cento monache provenienti da zone differenti della Cina e appartenenti alla scuola buddista dei berretti gialli ­– quella del Dalai Lama –.

L’accesso all’istruzione per le monache tibetane non è comune, sia fuori che dentro la Cina. Solitamente il loro compito è pregare e prendersi cura delle faccende quotidiane. Nel tempio Tampas – nome che identifica uno stadio di meditazione elevato – dall’anno scorso è attivo un corso di filosofia. Ha una durata di dieci anni e chi supera tutti gli esami avrà la possibilità di continuare gli studi in India, dove i corsi durano più a lungo.

Nel 1959 il governo ha distrutto parte del monastero, ma molto di esso si è conservato . Con l’avvio delle lezioni hanno ricostruito anche una sala principale, dove mattina e sera si prega, si studia, si dorme e si mangia.

Con il levar del sole il tamburo risuona portando l’eco in ogni piccola stanza. Alle sette del mattino ha inizio la “Puja“, una preghiera che varia di giornata in giornata. Le cento monache sedute una accanto all’altra e coperte da pesanti giacche giallo-bordeaux, cantano mantra colmi di pace e amore. A metà preghiera vengono serviti tè con burro, un pugno di farina d’orzo da inzuppare e continuando nei canti, ognuna fa la sua pallina per una semplice ma nutriente colazione.

Alle dieci la maggior parte delle monache frequenta la lezione di filosofia. L’insegnante – in tibetano Geshe la ­– è un monaco originario dello Yunnan che ha studiato buddismo per anni in India. Zelinchuchu, Chelinchuzu, Tenzinamo, Zecinchuzu, sono alcuni dei nomi delle monache che assieme al maestro mi hanno condotta attraverso il passato e il presente di questo luogo.

Dalla piccola stanza che mi ospita, il suono di battiti di mani e voci mi ha accompagnato dal pomeriggio alla sera . Un’armonia che difficilmente dimenticherò, data dai così detti “dibattiti filosofici”. Due monache, una in piedi che lancia un argomento e l’altra seduta di fronte impegnata a mantenere accesa la discussione senza “cadere” negli ostacoli posti da chi in piedi ribatte – appunto – con un forte battito di mani.

Nel tempo libero le “meimei” – in cinese “sorelle” – leggono e studiano. Le trovi ovunque: sedute per terra dentro le loro stanze, nei corridoi o all’aperto, all’ombra di noci secolari, protette da un incantevole cerchio di cinque alte montagne. Ognuna con il suo cuscino, un piccolo tavolino e, avvolto in un panno di seta giallo, un libro dalle pagine lunghe e orizzontali, prezioso custode degli insegnamenti del Dalai Lama.

È quasi sera, il sole sta per salutare i tetti del tempio per raggiungerne altri, una voce profonda e intensa accompagna la mia scrittura. Lei, così austera ma con lo sguardo pieno di dolcezza, sta dando inizio ai mantra serali. La sua anima sembra non essere appesantita dalla forza di gravità. Guida tutte le cento donne che con lei cantano e pregano. La sua voce è maestra abbracciata dalle altre e la sua presenza è splendente ma non abbaglia. Una testa rasata, due occhi perfettamente allineati finiscono chiudendosi. Un sorriso riservato ma rivolto al mondo intero. Kesongiumà è la guida di tutte le monache. Il suo respiro assieme agli altri soffi vitali che riscaldano il monastero, sono dediti ad elevare la propria persona, in direzione di un amore incondizionato verso l’universo.

Salendo verso nord, seguendo la linea di confine sino-tibetana, il tempio Tampa è la prima occasione preziosa che si incontra per approfondire la conoscenza della cultura, della storia e della geografia di questo angolo di mondo. Qui non esistono limiti o vincoli imposti, è possibile dialogare e danzare con popoli diversi, ma tutti appartenenti allo stesso territorio.

Francesca Bottari

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