Semi nel vento

Stampa

Foto: M. Canapini 

Nel dicembre 2019, seguendo le principali rotte dei migranti/profughi lungo i confini d’Europa, ho trascorso due settimane in Tunisia, “in bilico” tra fuggiaschi, cooperazione e instabilità collettive. Condivido un estratto di quei racconti “d’oltremare”, radicati sulla frontiera. 

Nel prestigioso quartiere Sangho di Zarzis cerco una villetta a due piani difesa da rotoli di filo spinato: gli uffici dell’UNHCR. Le operatrici responsabili della missione, Alessia e Chiara, mi accolgono al primo gradino di una scala a chiocciola. “Oltre a fornire assistenza e protezione umanitaria a rifugiati e richiedenti asilo, supportiamo il governo tunisino nell’atto di salvare vite in mare. A settembre 2019 siamo riusciti a raggiungere 1.241 siriani, 235 eritrei, 392 ivoriani, 179 somali, 259 sudanesi, grazie alla collaborazione di vari partner: Arab Institute for Human Rights, Tunisian Refugees Council, Tunisian Association for Management and Social Stability. Noi di UNHCR, seguendo criteri e interviste, registriamo i presunti rifugiati. Non è semplice poiché la Tunisia è terra di transito per gran parte dei migranti: arrivano in aereo, via mare, via terra, attraverso canali regolari e irregolari, ma quasi tutti con l’intento di raggiungere l’Europa. La Tunisia è uno dei paesi firmatari della Convenzione di Ginevra, accoglie rifugiati dal 1970. Dei 3.000 attualmente riconosciuti metà sono siriani, in numero ridotto yemeniti. Vanno e vengono, entrano ed escono in base alle tensioni che esplodono all’interno della Libia, la quale, seppur in maniera precaria, è dal punto di vista economico sorretto da manodopera migrante (che si destreggia tra rapimenti, riscatti e violenze). Quest’anno gli arrivi via terra sono stati 708, quelli marittimi 539, i morti in mare 146 (contando quelli affogati esclusivamente in acque tunisine). L’87% degli arrivi appartiene al genere maschile, ben l’86 % del totale è giunto dalla Libia e tra questi il 76% ci ha trascorso più di un anno. Il profilo della vulnerabilità parla di 352 vittime di tratta, 218 vittime di tortura, 41 vittime di violenza di genere o discriminazione razziale, più 1 disabile e 19 donne incinta”. 

Dai primi di novembre l’80% dei migranti che richiede la protezione internazionale appellandosi all’UNHCR proviene dalla Costa d’Avorio. Grazie ad un rapido passaparola ho l’opportunità di incontrare tre esponenti della comunità (quattro se si considera anche un fagotto di coperte tenuto stretto dalla madre): Lydia, Kone, Pascaline e Malika, dieci mesi di vita. Le ragazze hanno tutte meno di trent’anni. “In tre settimane abbiamo attraversato il Burkina Faso, il Niger e l’imbuto desertico di Madama fino a Sebha. Viviamo a Zarzis da tre mesi. Prima della partenza non eravamo al corrente di ciò che accadeva in Libia, soprattutto nei confronti delle donne. Avremmo dovuto informarci attraverso Facebook o i media ma avevamo troppa fretta di lasciare il paese. Appena c’è stata occasione ce ne siamo andate. Considerando gli otto arresti subiti abbiamo trascorso complessivamente un anno e otto mesi in prigione. In Libia non è permesso alle donne camminare liberamente per strada, dunque ogni check-point era un’ipotetica reclusione. Per il rilascio chiedevano ogni volta 120 euro a testa, moltiplica per otto e capisci perché non abbiamo più nulla in tasca. Nelle celle non c’era acqua, né igiene, pochissimo cibo, utilizzavamo una stuoia sudicia come brandina. In compenso le torture e gli stupri erano quotidiani. Non c’è donna transitata in Libia a cui i gendarmi abbiano risparmiato ripetute violenze carnali. Abbiamo visto uomini venir trattati e venduti come schiavi. Un mercoledì dei ragazzi hanno forzato la porta della cella e siamo scappati per le strade di Tripoli. - dichiara Kone, la portavoce: l’unica del gruppetto a parlare un francese approssimativo - Dopodiché abbiamo tentato la traversata ben tre volte, ma ogni volta la Marina Libica ci ha intercettato. Sempre ci hanno rispediti indietro come sacchi di rifiuti, senza darci spiegazioni o alcun tipo di assistenza. Dopo vari tentativi siamo riuscite a raggiungere la frontiera; a Ras Agedir lo stato tunisino era scomparso nel nulla, la dogana giaceva blindata. Preoccupate dal fatto che qualche mafioso o paramilitare ci riportasse a Tripoli abbiamo dato venti dinari a un signore chiedendogli un passaggio fino a Ben Garden. Da allora siamo a Zarzis, ospiti di una giovane connazionale”. Malika, scuotendosi, apre lentamente gli occhi. La bambina è nata senza dubbio dentro un ignoto carcere di Tripoli. “Non vogliamo andare in Europa, non più. Abbiamo perso tutto, non abbiamo più famiglia, nessuno che può darci una mano. Cerchiamo lavoro qui a Zarzis chiedendo nel frattempo la protezione umanitaria. Fino a due settimane fa lavoravo in un ristorante come cameriera. - continua Pascaline, pigiando gli occhiali scivolati sulla punta del naso a patata - Il titolare, in seguito ad un litigio, mi ha offeso con insulti razzisti, aggredendomi con un coltello”. 

Il 23 novembre è avvenuto un naufragio ad un miglio da Lampedusa. Da Kelibia vedi le luminarie di Pantelleria. La tentazione è troppo forte, l’ennesimo bollettino parla chiaro: 18 morti, 149 salvati, 5 cadaveri ritrovarti sugli scogli dell’isola. Tempo dieci giorni e Alarm Phone rilancia: è di almeno 60 morti il bilancio di un nuovo naufragio avvenuto nelle acque dell’oceano Atlantico all’altezza di Nouadhibou. 74 passeggeri sono riusciti a salvarsi raggiungendo a nuoto la Mauritania. Il barcone era partito giovedì scorso dal Gambia ed era diretto alle isole Canarie: a bordo si trovavano circa 150 persone di nazionalità diverse. Alcuni migranti sono andati dispersi, solo chi sapeva nuotare si è salvato. Ecatombe: ἑκατόν (cento) βοῦς (buoi). Nell’antica Grecia, ‘sacrificio di cento buoi’. Per estensione, strage colossale. Replicabile a oltranza. 

Annoto l’ultima intervista. L’interlocutrice è Silvia, operatrice di Cefa Onlus (‘Il Seme della Solidarietà’), conosciuta nel 2015 a Patan, sulle instabili lande nepalesi post sisma. “Dal 2017 il mio lavoro è focalizzato sulla Libia, in particolare sul carcere governativo di Tarek Al Sika. La maggior parte dei detenuti è stato incarcerato per avere tentato di raggiungere illegalmente l’Europa o per aver commesso reati penali. I centri per migranti sono separati dalle prigioni destinate ai cittadini libici, dunque lavoriamo con staff locali cercando di avere una presenza stabile così da monitorare ciò che accade dentro quelle mura. Un mese fa abbiamo organizzato una formazione a Tunisi con alcune guardie del centro, focalizzando l’attività sulla gestione del conflitto pacifico. L’obiettivo è essere presenti per far sì che la struttura carceriera mantenga almeno una parvenza minima di legalità, sebbene nessuno possa sapere cosa accade negli altri centri di detenzione. Vorremmo incontrare i migranti  (se ne contano 700.000 in Libia) restando nei limiti dell’associazionismo, senza sostituirci allo Stato. Non è semplice lavorare con le guardie, hai spesso il presentimento di lavorare con aguzzini e torturatori. Gli stereotipi offuscano la vista. Quando li incontri capisci però di avere a che fare semplicemente con dei ragazzi. Durante la formazione il più grande aveva 35 anni, tutti gli altri erano nati dopo il 1990. Nel corso dell’attività si sono aperti un poco. Insistiamo sulla comunicazione, sul rispetto dell’altro, sperando che l’impulso violento venga sempre più addomesticato. Abbiamo scoperto che i ragazzi non hanno formazione o educazione adeguata alle spalle, lavorano anche venti ore al giorno in un paese dilaniato dalla corruzione, dai colpi di mortaio, dai favori sottobanco. Non vogliono essere giustificazioni le nostre, solo un modo per gettare lo sguardo oltre il recinto e capire chi c’è dall’altra parte. Crediamo che l’Italia abbia una responsabilità grandissima nei confronti della Libia, tra petrolio, politica estera, colonialismo. Migliaia di persone vengono dimenticate in quell’enorme buco nero che è diventata la Libia dopo gli accordi dell’estate 2017 tra il governo italiano di Paolo Gentiloni e quello di Fayez al-Sarraj. Quell’intesa ha trasformato il paese in una trappola mortale: i migranti che vogliono arrivare in Europa (ma anche quelli che sono stati respinti) vengono portati nei centri di detenzione, ossia dei nuovi lager. In parole spicce si tollerano le torture pur di gestire il fenomeno migratorio ed evitare gli sbarchi. Tra denunciare e tentare di far qualcosa da dentro abbiamo scelto la seconda. Sapendo che quando agisci sei attaccabile, quando non ti schieri rimani neutro” conclude Silvia, stringendo tra le mani una zuppa di fave. Il traghetto notturno, compiendo un’ellisse, raggiungerà Palermo nell’ora in cui gli spazzini puliscono le piazze. Pan Ormus, ‘tutto porto’. 

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

Ultime su questo tema

Basta guerra fredda!

30 Agosto 2025
Il recente vertice di Anchorage ha aperto spiragli per un futuro meno segnato da conflitti e contrapposizioni. (Alex Zanotelli e Laura Tussi)

Il lavoro delle Ong nel Mediterraneo, tra minacce e ostruzionismo

29 Agosto 2025
Dopo l’attacco alla Ocean Viking, abbiamo intervistato Sara, Protection officer a bordo della nave Humanity 1. (Maddalena D´Aquilio

Global Sumud Flotilla: resistere per esistere

29 Agosto 2025
Dal Mediterraneo a Gaza: la più grande flottiglia civile mai organizzata per denunciare il genocidio e portare solidarietà al popolo palestinese. (Articolo 21)

Un No al Ponte con ventiquattromila baci

27 Agosto 2025
Prima di sapere se il Ponte crollerà o non crollerà, per la gente del posto sarebbe prioritario comprendere se riuscirà ancora a vivere e a respirare. (Jacobin Italia)

Giornaliste a Gaza

26 Agosto 2025
Le donne giornaliste di Gaza: “Continuano il loro lavoro nonostante siano bersagli di attacchi israeliani, di carestia e di violenza”. (Monica Pelliccia)

Video

Rapporto di Msf: almeno 6700 Rohingya uccisi nel Myanmar in un mese