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Nepal: Namasté maestro macellaio
Sicurezza
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Foto: M. Canapini ®
Nel villaggio raso al suolo di Bungamati, mani sporche di sangue ovino salutano i viandanti alla maniera classica, unendo i palmi delle mani. Crepe profonde corrono sui pochi muri rimasti in piedi come fossero una vecchia, astratta linea telegrafica in disuso. Un vicolo stretto e affollato (pattugliato da un cane scheletrico) annuncia il centro PAANI: una goccia d’allegria in un mare di incertezze. La struttura, destinata al sostegno di minori abbandonati, garantisce da tempo campagne di vaccinazione, programmi informativi sull’educazione infantile e corsi di alfabetizzazione. La goccia verrà presto convertita in un centro di prima assistenza (ludica e psicologica) per le vittime più vulnerabili del sisma: bambini, anziani, disabili. Indispensabile come la radice gorkhali della parola stessa: acqua. Adhyan, Prinsa e Arun, tre amichetti conosciuti al parco giochi, sgranocchiano patate poco cotte, infilandosi in capanne rattoppate con lamiere e bambù intrecciato. Un taxi sgangherato di colore giallo affonda in buche e cavità stradali. Sette monaci ridacchiando tra loro, superando il quartiere di Banjra con leggerezza eterea. I tibetani, monaci e non, scappati dall’occupazione cinese nel corso degli anni, approdano nel distretto dopo una fuga speranzosa attraverso le montagne. “Ogni anno migliaia di civili rischiano il tutto per tutto, intraprendendo un lungo viaggio verso la città di Dharamsala, nello stato dell’Himachal Pradesh, sede del governo tibetano in esilio. Migliaia di profughi sperano di ricevere dalla fuga ciò che gli è stato rifiutato in patria: assistenza sanitaria, educazione, benessere, sicurezza. È una rotta clandestina di cui si parla poco, mai diventata virale. Molte persone vengono uccise o catturate nel tentativo di superare illegalmente il confine; altre muoiono assiderate, altre ancora annegano attraversando i numerosi corsi d'acqua. I pochi milioni di tibetani rimasti oltrefrontiera sono ormai in netta minoranza rispetto ai sette milioni di cinesi trapiantati astutamente dal governo di Pechino” racconta Sangam, il più loquace del gruppetto. “Banjra, un minuscolo pezzetto di Tibet trapiantato in terra straniera, funge da trampolino di lancio prima dell’arrivo nella sacra città del quattordicesimo Dalai Lama”. Alcuni elicotteri si dirigono a nord trasportando cibo e medicinali in sacchi di iuta. A cinque mesi dal sisma infrastrutture pubbliche come ponti o strade sono lasciate a marcire: austere e impercorribili, relegano tanti villaggi fuori dal mondo conosciuto.
Gli spostamenti geografici comportano spesso un fulmineo cambio di rotta nel nostro subconscio onirico. Ciò persiste fintanto che l’assuefazione ai luoghi estranei non prenda di nuovo il sopravvento. Sogniamo sempre le stesse fantasie in viaggio? Osservo il macellaio stanziato sotto casa di Silvia, cooperante AIBI e guida sul campo. Il nerboruto mattatore, già alle 7.00 precise affetta strisce di carne con maestria e lentezza, stendendo grezzamente braciole e cosce di capre sul bancone. Trita ossa e budella, si sporge sul vicolo, tiene lontano un cagnolino lanciandogli sassolini, parlotta coi clienti. Lo immagino eterno, l’uomo-statua trasformatosi in pura azione. A Kirtipur, un’ora e trenta di marcia da Patan, sopravvivono circa cento persone, le uniche rimaste a vivere nel post-sisma imperante. Alcune donne corpulente setacciano riso per l’inverno utilizzando larghe ceste intrecciate a mano. Dietro una porta malandata in legno è seduta Indra Laxmi: "Ho tre figli. Di notte è molto freddo e l'inverno si avvicina sempre più... a causa dell’embargo indiano non possiamo scaldarci né cucinare, non abbiamo più bombole e chissà quanto tempo ancora staremo qui. Giorni fa abbiamo costruito un forno in terra cruda per cuocere del pane. Lo alimentiamo con rametti secchi raccolti nei dintorni. La vera emergenza ora è l’embargo, non il sisma. È come gettare sale sopra una ferita”. Le casette di lamiere e bambù non difenderanno i locali dal gelo imminente. Laute donazioni estere pressoché smarrite nel silenzio generale. L’Aquila insegna.
Desolazione. Il paesaggio, spettrale. Fiumi di macerie e calcinacci, riversati sul sentiero in terra battuta, hanno seppellito vite e ricordi. Le assi delle case, marce e spezzate, bucano il cielo come acuminate spade. Abitazioni sventrate, distrutte, collassate. Il vuoto. In numerosi villaggi "dimenticati" nei pressi di Siddhipur, centinaia di famiglie vivono in pochi metri di spazio, freddi e sovraffollati. Al microcosmo popolare si aggiunge la rilevanza delle grandi strutture. Gli edifici di Piazza Durbar a Katmandu, iscritti nel Patrimonio Mondiale UNESCO, sono andati distrutti: fra questi la torre Dharahara (costruita nel 1832 - nel crollo ha ucciso almeno 180 persone) e il tempio di Manakamana situato nel distretto di Gorkha. Danneggiato anche il tempio induista di Janaki Mandir a Janakpur. S’aggiunge la voce del moto endogeno. Più ti immergi nel disastro, più aumenta la nausea di morte: “Proprio qui sono morte diciassette persone, laggiù ben trentadue” racconta Shalik, architetto e profondo adepto del Naturalismo. “Ci vogliono circa 18.000 dollari per ricostruire una casa; le istituzioni non ci aiutano. Bisognerebbe demolire i tanti ruderi rimasti in piedi, poi pensare a rimettere in piedi le nostre abitazioni. Quando è arrivata la scossa non abbiamo fatto in tempo ad alzarci dal divano che la casa di fronte, di ben quattro piani, era già collassata su sé stessa. Spaventoso”. Krishal è rimasto sepolto un giorno intero tra le macerie della propria dimora. Il suo migliore amico non ha aperto bocca per tre lune, traumatizzato. “La vita in Nepal è dura, manca il lavoro e le nostre condizioni sono peggiorate drasticamente dopo il terremoto e l’embargo. Un inferno. Vorrei emigrare all’estero, precisamente in America, ma il governo ha rifiutato la mia richiesta ben tre volte… il mio sogno è diventare un militare”. In alcuni luoghi sembra non esistere né tempo né età. Ram Maharjan e sua moglie Indra Mai, settantatré anni entrambi, siedono all’ombra di una tenda governativa. “Siamo rimasti solo noi due; di notte abbiamo molto freddo e come se le disgrazie presenti non bastassero, mi sono rotta pure una caviglia. Non posso lavorare nei campi; mio marito è costretto a fare il doppio del lavoro. È andata peggio al mio genero però, morto sotto le macerie in via Mahalaxmi” sentenzia Indra tutto d’un fiato, guance e occhi arrossati.
Chiudo gli occhi e vedo scorrere cinque mesi di viaggio: intensi, magnifici, maledetti. Dilato le pupille e colgo l’adesso: anatre, mezzi inclinati per peso eccessivo, il paesaggio dilaniato che toglie il fiato, l’orfanotrofio per bambini rimasti soli a seguito del conflitto tra Maoisti e truppe governative, la vecchissima Sachkya, sconvolta di dover fare i conti con la civiltà dopo anni di eremitaggio solitario, Lacha sfregiato dal fuoco appiccato dal padre sbronzo. Ed un terreno che fa festa, danza macabro sotto ai piedi. Nonostante tutto essi ridono, gettando il capo all’indietro ed esclamando namasté ai tanti passanti vaporati dietro l’ennesimo angolo crepato. Arraffo una vecchia mappa, due numeri telefonici rimediati online, un giaccone, una collana buddista simile al Tasbeeh islamico. Percorrerò la rotta balcanica, ritroverò il popolo siriano conosciuto tre anni orsono nei campi marci di Atma e Bab Al Salam. Chissà se rivedrò dopotutto Fatima, Firas o la piccola Amira dagli occhi cupi?
Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).