La tela del ragno

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Foto: Matthias Canapini

“In Tunisia tutti i giovani hanno provato almeno una volta ad andare in Italia. È un passaggio obbligatorio, una tappa da compiere” esordisce Fouad Abdi. Passeggiamo lenti lungo Avenue Bourguiba, cuore di Tunisi, fulcro di manifestazioni e picchetti durante il dissenso primaverile esploso nel 2011. 

“Negli ultimi anni la Tunisia è diventata uno degli interlocutori principali delle politiche di sicurezza europee. Il governo soddisfa le richieste dell’Unione Europea che mira a bloccare i flussi migratori all’interno del Paese, ancor prima che le persone possano raggiungere Lampedusa, Pantelleria o Linosa. Una grande quantità di denaro viene investita nel finanziamento e nel supporto alla Guardia Costiera tunisina (e alle forze di polizia) che controlla i confini marittimi con l’intento di riportare indietro le persone intercettate in mare, in quelli che sono stati definiti ‘respingimenti per procura’, di cui le autorità europee non vogliono farsi carico (per non dover rispondere degli obblighi internazionali in materia di protezione e asilo). È una situazione a tutti gli effetti insostenibile. Al di qua del mare, intanto, imperversa una scia di disillusione e una crisi socio-economica molto grave. Lo Stato risponde con forza e repressione, ma la precarietà del vivere alimenta le partenze. L’unica certezza è che per molti tunisini emigrare rimane una necessità, anche se non partono più decine di imbarcazioni come nel gennaio 2011, quando il governo di Ben Alì stava capitolando. Quasi ogni settimana, in specifiche zone del paese, piccole barchette artigianali attendono il buio per dirigersi verso le coste siciliane”. Quattromila dinari tunisini (1.200 euro), una vecchia imbarcazione in legno comprata da un pescatore, acqua e provviste: gli ingredienti. Il buio, l’assenza di turisti e bagnanti, l’occhio complice del trafficante: gli alleati. 

“Ogni anno circa centomila studenti abbandonano gli studi prima di terminarli. Visto il futuro incerto non ritengono che studiare sia una cosa utile. Ciò favorisce i movimenti migratori in uscita. I migranti subsahariani, in tutto questo, sono una percentuale bassa ma in costante aumento per via dei bombardamenti sui centri di detenzione libici. C’è anche chi preferisce tentare comunque dalla Libia, poiché i prezzi della rotta marittima sono più bassi. In Tunisia il 40% delle partenze avviene da Sfax. 

Ho un amico, Amir, che ha tentato l’attraversata proprio da Sfax. Il cambio dei mezzi è avvenuto sull’isola di Kerkennah. Si sono imbarcati e dopo cinquecento metri in mare aperto sono stati arrestati dalla polizia, chiamata dal trafficante stesso”. A seguito dei tanti arresti, ormai è insolito che gli scafisti si facciano trovare a bordo. Oppure, come capita sempre più spesso, a un migrante viene fatto uno “sconto” se si occupa del timone. Gli viene data una bussola, un telefono satellitare e talvolta il numero della centrale operativa della Guardia Costiera italiana. In ogni caso, una volta che ha pagato la tariffa il migrante diventa poco utile. Al più viene sfruttato come buona pubblicità per i suoi conterranei rimasti a casa. Se lui ce l’ha fatta, ce l’ha faccio anche io, pensano gli amici d’infanzia, e si affidano allo stesso trafficante. È per questo motivo che spesso i migranti viaggiano in gruppi divisi per nazionalità. Sin dal Paese di partenza, le persone vengono incanalate in flussi controllati da reti criminali transnazionali. In questa precisa parte di mondo, a partire dal 2015 il profilo delle persone che scelgono di andarsene cambia drasticamente. Prima partivano solo i ceti più poveri, ora emigrano i ceti più abbienti, compresi i diplomati e i laureati. 

Le statistiche parlano di sempre più minori non accompagnati e donne che decidono di partire. Ne chiedo le motivazioni a Fouad. “Di base, c’è una sensazione generale di sconforto e perdita di prospettive. Mancano servizi, vige l’omertà, le periferie si spopolano. Non serve a nulla studiare. La migrazione è uno stile di vita, non un’emergenza. Un processo che, ahimè, comprende generazioni. Parliamo di comunità che si sfaldano. Leggevo, a proposito del Malawi, che metà dei laureati locali vive a Londra. Sono le Ong a portare in dottori in Africa, non viceversa. Si è rotto il senso di famiglia, dello stare insieme. La logica è individualizzante e sfocia in catastrofi collettive. Dal 2011 la Tunisia ha firmato un accordo con l’Italia per la riammissione dei migranti irregolari: a Tunisi arriva un volo a settimana con sessanta tunisini. Chi viene rimpatriato, dopo qualche mese riprova a partire. È una prassi, un sogno ricorrente che può trasformarsi in incubo”. L’Africa è in movimento da sempre, la Tunisia è partenza, arrivo e transito. Intuisco che la migrazione consiste in un singolo tassello, un breve momento dell’intera esistenza. Non si dovrebbe parlare in generale di “flussi” perché questi sono composti da persone infinitamente sfaccettate, differenti per vissuto e per le motivazioni che conducono a tale scelta: lo studente curioso, l’ex carcerato, la madre stanca, lo stupratore che non può tornare al villaggio

Rue Aboubakar Essedik. Anche qui a Tunisi varco l’ingresso degli uffici COSPE. So che l’associazione si occupa maggiormente di imprenditoria sociale, agro-ecologia, radio libere, salute materno-infantile, ma ciò non ha impedito ad attivisti e operatori di schierarsi contro la frontiera in termini di denunce e critiche. 

“In sintesi - proferisce Alessia Turzi, operatrice - crediamo che qualsiasi forma di protesta e attivismo contro la fortezza Europa sia legittima. Soprattutto in un momento di vuoto di memoria, la quale non permette di costruire un’accoglienza degna, né di salvare chi affoga in mare. L’attuale governo tunisino non è in grado di far fronte in maniera efficiente e immediata alle pessime condizioni nelle quali si trovano i rifugiati sul territorio nazionale. Questo anche a causa del contesto politico ed economico nel quale ci troviamo: la Tunisia, infatti, sta attraversando un periodo di profondo cambiamento e molte situazioni che avrebbero bisogno di attenzione vengono trascurate. L’avanguardia politica che aveva guidato le rivolte della primavera araba se né andata per rabbia e frustrazione: una generazione intera di trentenni o poco più. 

Il paese promette poco, le aree interne sono inabissate, il tasso di disoccupazione è salito al 40%, sui confini si vive di contrabbando. Dal 2011 l’economia non è più migliorata, sicché i giovani partono a macchie, ogni provincia o governatorato segue la propria comunità dispersa altrove. È una storia dopotutto recente la diaspora tunisina, prima l’unica immigrazione che conoscevano da queste parti era quella fatta dagli studenti subsahariani benestanti, giunti qui per l’alto livello d’istruzione”. 

Tra le vittime dell’infame giostra ci sono anche persone truffate divenute poi migranti, individui approdati a Lampedusa per contrarietà. La legge prevede un pagamento di venti dinari a settimana dopo la scadenza dei novanta giorni del permesso di soggiorno. Chi non può permetterselo, compresi aspiranti calciatori o colf imbrogliate da ingaggi farlocchi, viene schiacciato dalla falla. A quel punto, l’alternativa è oltrepassare il mare, finire in galera, vivere da invisibile in terra straniera. Non è un caso che in qualche angolo del Sahel, girovagando, ci si possa imbattere in cartelli rammendati con scotch e spago, che recitano letteralmente: Vivre et travaille? En Tunisie. Appeler le numèro +216894561. La tela del ragno

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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