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Nelle periferie dell’impero cinese...
Giovani
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Foto: Unsplash.com
La Mongolia sta diventando l’ennesima periferia dell’impero cinese? Dal punto di vista ambientale Ulaan Baatar, la capitale della Mongolia, ha poco da invidiare quanto ad inquinamento alle megalopoli cinesi e secondo la più recente classifica dell’IQAir è già sulla buona strada per essere periferia dell’”Impero cinese”, trovandosi vicina al confine cinese e al 24 esimo posto di una classifica affollata da città cinesi come Beijing, Chengdu, Shenyang, Chongqing, Guangzhou, Shenzhen e la tristemente famosa causa Covid 19 Wuhan. Nella capitale mongola negli ultimi anni l’aria è diventata irrespirabile e i bambini mongoli, al pari di quelli cresciuti in molte città cinesi, stanno sviluppando gravi problemi respiratori al punto da compromettere la loro salute per via del loro respiro più veloce rispetto a quello degli adulti e della bassa statura che li rende più esposti alle polveri tossiche che sono dense e si concentrano a pochi centimetri dal terreno. Ma l’inquinamento eccessivo provoca non solo difficoltà respiratorie, ma anche danni permanenti agli organi interni in fase di crescita, come reni e polmoni. I rischi sono elevati anche per i feti nell’utero materno, dato che le particelle inquinanti più sottili riescono ad essere assorbite dal sangue e dalla placenta aumentando esponenzialmente il rischio di aborti e successivamente di disabilità, diabete infantile e malattie cardiovascolari, disturbi che a loro volta sono tra le cause di leucemie e disturbi del comportamento. Così mentre nella capitale mongola principalmente a causa del carbone utilizzato per riscaldare le case e le ger, cioè le tipiche tende mongole, i più giovani compromettono la loro salute, a scuola nella Mongolia interna a compromettersi è la cultura mongola.
Lo scorso novembre Shi Taifeng, il segretario del Partito comunista cinese (Pcc) della Mongolia interna, una regione autonoma della Cina al confine con la Mongolia, ha rimproverato i funzionari locali per la gestione della riforma scolastica, che in estate ha dato luogo a proteste di massa. Nel redarguire i propri sottoposti, Taifeng ha affermato che le autorità della Mongolia interna hanno avuto “enormi problemi a promuovere l’uso del programma [scolastico] nazionale” e che al momento “Non sono riusciti a forgiare un forte senso di appartenenza alla nazione cinese”. Gli studenti di origine mongola in settembre si erano rivoltati contro le autorità locali che avevano deciso di ridurre l’uso della loro lingua natia nei programmi scolastici a favore del mandarino. Le dimostrazioni e i boicottaggi in questa regione della Cina sono stati i più significativi da decenni e centinaia di studenti delle classi superiori hanno abbandonato le lezioni, mentre molti abitanti hanno ritirato i propri bambini dalle scuole. Anche se Pechino ha zittito le proteste in tempi rapidi, dispiegando i veicoli corazzati attorno gli istituti scolastici epicentro delle tensioni, l’intervento delle Forze di sicurezza cinesi ha scatenato proteste anche nella confinante Mongolia. In ottobre decine di manifestanti si sono radunati nella capitale Ulaan Baatar vestiti con abiti tradizionali mongoli e con striscioni che mostravano immagini di presunte atrocità perpetrate dal regime cinese nella Mongolia interna, ed hanno chiesto il rilascio degli abitanti di etnia mongola arrestati in Cina. Molti attivisti per i diritti umani temono che la decisione cinese di limitare l’uso del proprio idioma nelle scuole porti alla progressiva estinzione della cultura mongola.
Un timore più che fondato visto che i funzionari locali del Pcc hanno il mandato di attuare anche nel 2021 la politica linguistica ufficiale in modo “fermo, esaustivo e incondizionato” in modo che tutte le scuole della Mongolia interna rispettino l’obbligo di insegnare diverse materie in mandarino entro il 2022. Regole simili sono già state imposte in Tibet e nello Xinjiang, dove il Partito cerca da anni di sopprimere le tradizioni culturali di tibetani e uiguri. Nella Regione autonoma del Tibet (Tar) dal maggio scorso sono entrati in vigore i nuovi regolamenti per “rafforzare l’unità etnica”. Secondo quanto riferito dal Tibet Daily, i regolamenti impongono la responsabilità di lavorare all'unità etnica a governo locale, aziende, organizzazioni comunitarie, villaggi, scuole, gruppi militari e centri di attività religiosa e tutte le componenti della società sono incoraggiate ad “integrare l’unità etnica nella gestione e nella cultura delle aziende, reclutando dipendenti di tutti i gruppi etnici”. Per Lin Qingzhi, vicesegretario generale del Comitato permanente della legislatura tibetana, le nuove politiche sono state progettate per “unificare il senso di comunità della nazione cinese” e far entrare il Tibet “In una nuova era di sviluppo a lungo termine con pace e stabilità”. Il prezzo da pagare è però la propria identità culturale.
Nello Xinjiang, regione cinese che la locale popolazione chiama “Turkestan orientale”, la situazione non è migliore. Secondo le Nazioni Unite oltre un milione di uiguri su una popolazione di quasi 10 milioni, sono detenuti in modo arbitrario. Pechino ha sempre negato tali accuse, sostenendo che queste persone sono ospitate in centri di educazione e assistenza professionale per combattere il terrorismo, il separatismo e l’estremismo islamico, ma per molti attivisti questi centri sono veri e propri “campi di concentramento” che mirano a distruggere l’identità culturale dell’etnia uigura a favore di quella han, maggioritaria nel Paese. Le drammatiche testimonianze di quanto sta accadendo nello Xinjiang non mancano, ma secondo il sociologo uiguro dell’università Haci Bayram Veli di Ankara Abdürreşit Celil Karluk, “La condizione del popolo uiguro è ben più tragica di quanto finora descritto dai media” soprattutto perché “la leadership di Pechino è riuscita a paralizzare l’azione della comunità internazionale grazie alle minacce e alla corruzione”. Questo professore uiguro, che per meriti accademici ha recentemente ottenuto la cittadinanza turca, non ha notizie dirette della sua famiglia dal 2017: “Le autorità cinesi perseguitano la mia famiglia per chiudermi la bocca, ma io non ho mai ceduto. Non posso rimanere silente davanti alle atrocità compiute dal regime cinese nel Turkestan orientale”. Ma il caso della famiglia di Abdürreşit Celil Karluk non è isolato. “C’è un vecchio detto confuciano: Chi è escluso dal mio clan è un traditore. Nella tradizione confuciana la differenza è una minaccia. Il pensiero del Partito Comunista Cinese, più autoritario di quello confuciano, vede negli uiguri un pericolo perché essi sono una nazione diversa, pronta a costruire un proprio Stato moderno, con il proprio sistema culturale di riferimento” ha spiegato Karluk. Mongolia interna, Tibet e Xinjiang, tutte realtà che anche in questo 2021 faranno mantenere alta la guardia dell’"Impero cinese".
Alessandro Graziadei

Sono Alessandro, dal 1975 "sto" e "vado" come molti, ma attualmente "sto". Pubblicista, iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2009 e caporedattore per il portale Unimondo.org dal 2010, per anni andavo da Trento a Bologna, pendolare universitario, fino ad una laurea in storia contemporanea e da Trento a Rovereto, sempre a/r, dove imparavo la teoria della cooperazione allo sviluppo e della comunicazione con i corsi dell'Università della Pace e dei Popoli. Recidivo replicavo con un diploma in comunicazione e sviluppo del VIS tra Trento e Roma. In mezzo qualche esperienza di cooperazione internazionale e numerosi voli in America Latina. Ora a malincuore stanziale faccio viaggiare la mente aspettando le ferie per far muovere il resto di me. Sempre in lotta con la mia impronta ecologica, se posso vado a piedi (preferibilmente di corsa), vesto Patagonia, ”non mangio niente che abbia dei genitori", leggo e scrivo come molti soprattutto di ambiente, animali, diritti, doveri e “presunte sostenibilità”. Una mattina di maggio del 2015 mi hanno consegnato il premio giornalistico nazionale della Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue “Isabella Sturvi” finalizzato alla promozione del giornalismo sociale.