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Virus nuovi, abitudini vecchie (e cattive)
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Foto: Unsplash.com
Niente allarmismi, d’accordo. Ma niente facilonerie, d’altro canto.
Quando la pandemia è scoppiata in Cina, molti di noi hanno pensato che non sarebbe mai arrivata fino a qui, che sarebbe bastato isolare il focolaio, annullare i voli, chiudere i confini e che ognuno avrebbe affrontato i propri guai. Pare che essere globali sia motivante, necessario e interessante solo per i vantaggi che apporta. Per i problemi, ognun per sé e Dio per chi ci crede. Una visione agghiacciante, pessimista o utilitarista a seconda dei punti di vista, in ogni caso fin troppo realistica.
Quella stessa pandemia, però, dovrebbe averci insegnato che, come per tanti altri movimenti naturali nel mondo, i muri, i confini e l’isolamento servono, ma fino a un certo punto e solo per specifiche finalità. Altrimenti restano solo paravento per i manipolatori, gli ignoranti, i reazionari. Come dovrebbe averci anche insegnato che certi comportamenti non sono solo passaggi obbligati di una disperata ricerca di soluzioni, ma elementari norme di civiltà e convivenza che dovrebbero trovare spazio nel nostro codice di vita condivisa con altri esseri viventi, a prescindere dalle emergenze e dalle imposizioni. Detto questo, è evidente come il condizionale sia l’unica coniugazione possibile per queste riflessioni, che vestono una malcelata sfumatura di sarcasmo, desolazione e frustrazione.
Già, perché l’uomo non impara dai propri errori, anzi li ripete in forme diverse ma con dinamiche identiche, tronfio della sua memoria a lungo termine nella teoria delle celebrazioni e perpetuatore di memoria a brevissimo termine nella pratica dei gesti. E non dico questo sconfortata dagli assembramenti, da chi ti sta addosso come se niente fosse in fila alla cassa del supermercato, di chi ignora i benefici sperimentati di uno smart working ragionato e ne fraintende il senso, di chi non fa tesoro degli innumerevoli riscontri positivi che il lockdown ha messo in luce, dalla cura per un tempo vissuto in modo più lento a una riduzione di molteplici fattori di inquinamento, solo per fare qualche riferimento disordinato.
Il fatto è che preferiamo “tornare alla normalità”, che è quella nota, conosciuta e praticata, quindi per la legge non scritta dell’abitudine, della pigrizia e della tradizione… quella che consideriamo sempre valida. E allora va così, che alleviamo virus senza prospettiva, scivolando sul piano inclinato di un’etica dimenticata e di una morale forse mai considerata, dimenticando le relazioni delicate che spariscono tra plastica e ferraglia, ma che sono alla base della nostra sopravvivenza e del nostro stare in questo mondo.
Facciamo un esempio, che ha a che fare con il rispetto per gli animali: è recente la notizia che in Cina (toh, sorpresi?) sia stato identificato un nuovo virus, tale G4 EA H1N1, al momento presente solo nei maiali ma che potenzialmente potrebbe avere un decorso simile a quello che per una familiarità tutta umana chiamiamo ormai Covid-19: dagli animali all’uomo per crescere e moltiplicarsi nelle cellule che rivestono le vie aeree. Si tratta di un virus simile alla cosiddetta influenza suina del 2009, sul quale però i vaccini esistenti non hanno effetto. Suona la campanella d’allarme? Certo, dovrebbe, perché il timore è che, come è successo con Sars-Cov-2, anche in questo caso ci sia uno spillover (un salto di specie) dai maiali all’uomo. Eppure, procedere come sempre non sembra una cosa da mettere in discussione: manipolare gli animali, domestici o selvatici che siano, senza la minima remora, provocare conseguenze ormai immaginabili, correre ai ripari con strategie (quando presenti, perché non è scontato) di ripiego, emergenza e disperata corsa contro il tempo per la cura, senza considerare né aspetti di prevenzione né possibilità autentiche di cambiamento.
Le minacce che si profilano all’orizzonte non mancano: magari saranno per gli scienziati cinesi e britannici che hanno scoperto questo nuovo ceppo, che resteranno probabilmente inascoltati come già accaduto con il team che aveva segnalato le prime avvisaglie di Covid-19; oppure saranno i maiali, esseri dalla spiccata sensibilità che continuano a restare oggetti di una relazione feroce e grottesca di sfruttamento e paura; oppure saremo noi, sempre pronti a puntare il dito verso un nemico diverso, aggregatore di odio e di strumentale identificazione.
Intanto però siamo salvi: non è un problema immediato, ancora non è esploso nessun focolaio e noi restiamo inguaribili ottimisti che vivono il presente, quasi fossimo illuminati e fiduciosi monaci dediti al qui e ora. Che, al momento, coincide con focolai di contagi nei macelli, industria degli allevamenti ai massimi termini, nessun vaccino, cambiamenti minimi e inefficaci nelle consuetudini di ricchezza e sfruttamento della vita sul Pianeta, sfrenati banchetti al tavolo delle carni avvelenate, nonché dedizione ostinata a una salvifica quanto illusoria cecità politica globale.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.