Acqua grande

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Foto: M. Canapini 

Nel settembre 2019, seguendo le principali rotte dei migranti/profughi lungo i confini d’Europa, ho trascorso circa tre settimane tra le enclave spagnole di Ceuta e Melilla e l'area portuale di Tangeri. Condivido un estratto di quel racconto corale, fatto di barricate, violenze, passi condivisi.  

Omar Nafi, a Nador, continua ad aggiornare il profilo virtuale dell’associazione, spiegando senza freni imbrogli e strutture di potere. “Prima del 2015 le migrazioni avvenivano esclusivamente oltrepassando i confini di Melilla e Ceuta; ogni anno circa 4.000 migranti riuscivano a saltare. Dal momento in cui l’UE e il Marocco hanno deciso di costruire le barriere a lame trancianti a nord delle enclave, i flussi migratori si sono spostati via mare con i gommoni. Il numero delle partenze è aumentato vertiginosamente. Da 4.000 si è passati a 59.000 nel 2018. Questo aumento delle partenze è la conseguenza delle loro politiche migratorie. La domanda da porsi è: perché si è arrivati a questa situazione?”. In effetti il Marocco, nel tentativo di ottenere un mezzo per esercitare pressioni sull’Europa, aveva bisogno di un flusso di migranti più ampio rispetto ai 4.000 e in questo ci è riuscito: è ben ricompensato politicamente e finanziariamente. 

In Rue Sidi Bouabid a Tangeri, cinquecento metri sopra la Medina affollata di turisti e mercanzie, un pugno di sub-sahariani gioca a pallone sotto il rosone della Diocesi Cristiana. Coloro che non giocano, ciondolano sugli spalti in cemento fumando hashish scadente. Di controparte, i maghrebini nel parco comunale sniffano colla dai sacchetti di plastica. Zizù, ivoriano: “Sta arrivando l’inverno. L’anno scorso abbiamo perso due amici a causa del freddo; vivevano nei boschi vicino Tangeri. Sono bloccato qui da cinque anni e in cinque anni nessuno mi ha dato nulla, nemmeno un caffè. Prima vivevo nel quartiere di Masnana ma la situazione si è fatta insopportabile. La polizia viene, picchia, arresta … ci rimane solo Dio e questo posto, divenuto una sorta di rifugio per noi migranti”. Zizù lavorava in un bananeto e sbancava il lunario producendo piccoli utensili di bigiotteria. Nel 2002 la guerra civile iniziò quando dei soldati ribelli provarono a destituire il presidente. Nel 2007 sia la fazione mussulmana che quella cristiana firmarono un accordo per porre fine ai conflitti; le violenze non ebbero fine, e furono l’infanzia di Zizù. Morto il padre e ammalatasi la madre, all’età di sedici anni partì verso nord per cercare fortuna. “Nel 2015 ho tentato di raggiungere Ceuta ma la Guardia Civil mi ha catturato e spedito nel deserto. A Oujda la prima volta, a El-Aaiún, nel Sahara Occidentale, la seconda. Sono risalito pagando l’equivalente di 50 euro alla rete mafiosa locale. Tre settimane fa un amico ha tentato di attraversare lo Stretto di Gibilterra insieme a due compagni. Avevano speso poco per quel gommone malmesso, ma il risparmio è stato fatale. Pure durante l’assalto a Ceuta un amico ci ha rimesso la vita. È stato picchiato così forte dalla polizia da risvegliarsi cerebroleso. Abbiamo fatto una colletta per rispedirlo a casa, ma è morto in viaggio per emorragia cerebrale. Ora è sepolto nella terra rossa a pochi chilometri da Meknes. La polizia che ci reprime è la stessa che all’occorrenza chiude un occhio. Tutto il male in Africa, tutti i soldi in Europa. Se avessimo soldi sufficienti potremmo al limite far richiesta per tornare a casa (è possibile richiedere un rimpatrio volontario presso l’ambasciata di Rabat): a mani vuote, ma vivi. Qui non dormiamo mai tranquilli, basta la pelle scura per farti arrestare. Spesso, la notte, arrivano degli arabi armati di coltelli a molestarci. E dunque scattano risse, furti, pestaggi vigliacchi. In molti, prima di approdare in Marocco, hanno intrapreso la via per l’Algeria, attraversando Niger, Gabon, Mali. Ad Agadez ci si ferma solitamente per lavoro; a Dirkou (400 chilometri dalla Libia, incrocio tra Ciad e Niger) ci si passa per attraversare le montagne del Djanet, un posto dove regna schiavitù e poco lavoro, ma tanti campi minati lasciati dal conflitto tra libici, ciadiani e ribelli nigerini. L’attraversamento del Teneré, un business completamente in mano ai tuareg, risulta per tutti difficoltoso: tempeste di sabbia, cattiva alimentazione, conati di vomito improvvisi. Occorre fare buche nel terreno per scaldarsi e sopravvivere alla notte”. Due solidali scaricano una padella di cous cous. La “bolla” resta invariata per ore: narrazioni e calci al pallone. 

“È importante sapere che i foyer (casette, bivacchi, rifugi fatti di cortili e camerate) sono i punti di riferimento lungo la rotta dei clandestini. A ogni tappa i responsabili ti indicano quale sarà il tuo prossimo punto d’appoggio, in base alla tua nazionalità. Il capo foyer, anche fosse un farabutto, rappresenta l’assicurazione per il tuo viaggio. Difatti, qualora pagassi direttamente il passeur e lui sparisse, non avresti nessuno a cui rivolgerti, ti ritroveresti solo”. Racconta Ibrahim, 19 anni, le orecchie tappate da un paio di cuffie mimetiche. “Nei foyer è come se fossi accolto in famiglia, ma è richiesta una partecipazione finanziaria. Solitamente, per i senegalesi, si aggira attorno ai quindici dinari al mese: cuciniamo insieme, a turno. È un prezzo ragionevole. Altre etnie non condividono il cibo e ognuno cucina per sé. È necessario sapere che nell’Africa francofona, nonostante il concetto sia associato al viaggio clandestino verso l’Europa, faire l’aventure è l’espressione con cui ci si riferisce comunemente alle derive giovanili, simili a percorsi iniziatici, che non per forza puntano a nord. - racconta il neo-maggiorenne con la diligenza di un professore - Le donne senegalesi, ad esempio, emigrano principalmente in aereo, per raggiungere i mariti già stabilitisi in Europa anni addietro. Oppure cercano lavoro in qualche ristorante a Nouakchott per pagarsi il business fino alle Canarie. A volte, occorre dirlo, vengono ingannate e scaricate sulle coste marocchine anziché in Spagna. Da lì, se sono davvero sfortunate, vengono espulse dalla polizia marocchina che le abbandona nel deserto algerino”. Domando a Ibrahim come sia possibile cavarsela in epopee simili. Come riconoscere l’altro, come (af)fidarsi. “Poco a poco, impari a indovinare le intenzioni delle persone fin dai loro primi gesti. È un allenamento costante. Se lo sguardo è sfuggente o se gesticolano troppo quando ti vengono incontro, è meglio diffidare. Se nei gesti c’è calma, calore e negli occhi comprensione, poco dopo riceverai presumibilmente un tozzo di pane, dei fichi secchi o un bicchiere di latte.” 

Junior, 22 anni, da bambino faceva il sarto. Nel 2010 ha lasciato Dalaba, regione di KanKan (Guinea Conakry) insieme alla famiglia, composta dai fratelli Jordan e Jovi e dai genitori Charlotte e Roland. Lo accompagno a comprare un pollo da dieci dinari. “All’epoca dei fatti, ossia quando abbiamo deciso di lasciare la Guinea, io avevo 12 anni, mia sorella Jovi 7 e mio fratello Jordan 9. Un po’ a piedi, un po’ in autobus, abbiamo raggiunto Tangeri per imbarcarci. Alle 3 del 23 agosto 2010 siamo colati a picco. Entrambi i nostri genitori sono affogati, equipaggiati solamente con due camere d’aria estratte da una bici abbandonata. Due camere d’aria come salvagente, tu comprends? A quel punto, la Marina Spagnola ci ha ripescato dal mare, affidato ai colleghi marocchini e riportati di corsa a Rabat, in un centro per minori. Da quel momento non ci siamo più mossi. Da nove anni siamo bloccati in Marocco, senza soldi né lavoro. Non ho mai capito perché ci hanno rimandato indietro; eravamo molto piccoli e non capivamo cosa stesse accadendo. La barca si è rovesciata nello stretto … Intorno a noi c’era solo l’acqua grande del Mediterraneo.” 23 agosto 2010 è una vena dell’avambraccio, ago e filo per ricucire cocci, un tatuaggio per custodir memoria. “Mia sorella, in quanto minorenne, forse, è riuscita a ottenere un passaporto ma non serve a nulla: repressione anche per lei. Ci nascondiamo! Abbiamo paura di entrare nella Medina, comprare qualcosa o semplicemente svagarci. I locali ci guardano male; basta un cenno o un’occhiata di traverso per chiamare la polizia e rischiare la deportazione nel deserto. Sappiamo di essere un business per l’Europa, ma che possiamo farci?”. Il 29 settembre è indetta la Giornata del Rifugiato e sul confessionale della Diocesi il vescovo Santiago ha appiccicato un poster di Domenico Lucano, che recita Non si tratta solo di migranti. Tra la minuscola folla composta da quindici migranti e dodici cittadini marocchini, c’è anche Junior; prega sottovoce, tenendo gli occhi serrati. È davvero queste la sua storia? O è soltanto la fredda descrizione di un terribile momento con il quale voglio sostituire l’intera vita di un ragazzo? Perché non mi interessa ciò che gli è accaduto prima o quel che accadrà dopo? Se ci sarà un dopo. Perché a tratti, morbosamente, mi annoiano i dettagli della sua vita quotidiana, quelli che fanno sì che un essere umano possa essere definito tale? So del naufragio, dei nove anni di sottile prigionia in Marocco, dei sogni spezzati, ma perché non chiedo a Junior quale sia il suo colore preferito? Che sia anch’io, dopotutto, un ingranaggio della macchina? Non mostrare più i migranti significa cancellare le immagini del dramma. Sicché niente più aggressioni, tragedie, diritti negati, acquisto di frontiere. E raccontare storie dimezzate che effetto può provocare? Crisi dei rifugiati o conseguenze ben ponderate? La strada sono piedi neri. 

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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