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Churros e caffè
Democrazia
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Foto: M. Canapini
Nel settembre 2019, seguendo le principali rotte dei migranti/profughi lungo i confini d’Europa, ho trascorso circa tre settimane tra le enclave spagnole di Ceuta e Melilla e l'area portuale di Tangeri. Condivido un estratto di quel racconto corale, fatto di voci "bambine" e reticolati.
Nell’arco di trenta minuti la Guardia Civil del porto di Melilla respinge cinque minori. I ragazzini in fuga li riconosci dalle scarpe squarciate e dalle fronti sporche. Uno di essi raccoglie un pezzo di pane dalla spazzatura e lo spolpa coi denti rovinati. Gli scogli della roccaforte a fianco del faro, tirato a lucido per la commemorazione dei 522 anni di governo spagnolo, vengono colpiti dall’immondizia alla deriva. Il lato esposto dell’area portuale, a primo acchito, sembra un tratto di mondo più sorvegliato di Calais. Di fatto Melilla, città autonoma sotto il controllo di Madrid, è un francobollo di terra strappata all’Africa. Insieme a Ceuta corrispondono alle uniche frontiere terrestri tra l’Europa e il continente nero. Nelle pagine del Melilla Hoy, il periodico locale, non vi è nessuna notizia dei migranti bambini. Svetta però la Spagna campione del mondo di pallacanestro. Segue il campionato calcistico, dove El Melilla ha pareggiato in casa con Las Rozas. C’è un netto divario tra ciò che raccontano i media e ciò che avviene sotto gli occhi dei turisti e dei gendarmi. Sei ragazzini cercano un varco libero, un pezzo di rete rotta. Il più piccolo non arriva a 12 anni e indossa un cappellino di Calvin Klein. I compagni, nel loro piccolo formano l’idea massima di democrazia. Ognuno dice la sua, ascolta, agisce di rimando. Cum Panis, coloro che mangiano lo stesso pane.
L’autista della Linea Urbana esorcizza a suo modo la presenza straniera alle porte dell’enclave spagnola. “Al valico di Farhana puoi vedere solo tre cose: gli animali, i contrabbandieri e i negri” dice, inserendo la retromarcia. “Melilla è circondata su un lato dal mare e, sugli altri tre lati, da un muro alto sette metri sormontato da filo spinato. Senza dubbio necessario per frenare l’invasione dei negri. Le pattuglie della Guardia Civil sono molto solerti e anche dalla parte marocchina i controlli sono continui”. Le barriere, erette a fine anni Novanta, sono in realtà due, parallele, con posti di vigilanza alternati e camminamenti per il passaggio di veicoli addetti alla sicurezza. Dei cavi, seppelliti nel terreno, connettono una rete di sensori elettronici, sia acustici che visivi. La barriera è dotata di un’illuminazione ad alta intensità, di un sistema di videocamere di vigilanza a circuito chiuso e strumenti per la visione notturna. Il costo, sostenuto dall’Unione Europa, è stato di 30 milioni di euro. La Guardia Civil, dall’alto della collina, tiene premurosamente d’occhio, senza intervenire, traffici illegali di tappeti, birre, vestiti contraffatti. “Superare la rete è complicato, ma chi ci riesce si ritrova in Europa. - sentenzia Zinab, madre di quattro figli e originaria di Nador - Da un anno e sei mesi attendo i permessi per raggiungere la Spagna, dove vorrei aprire una taverna e dedicarmi alla mia passione: la cucina. Tre pomeriggi a settimana cucino patate con dei rami secchi per ingannare il tempo. Una delle mie figlie, di ventitré anni, ha scelto di vivere dentro al CETI, ma lo stress è alto e sta cedendo”. Come fosse un presagio, dal Centro de Estancia Temporal de Inmigrantes si fa avanti Sarah, una ragazza con le piaghe ai piedi e la bocca carnosa. Passeggia a braccetto con Abdul, ventinove anni, tunisino, divenuto migrante per lo stesso motivo di tutto gli altri: vita agra, tenore basso, mafie locali. “La Libia? I barconi? No, nessuno di noi li utilizza, è affare da negri subsahariani quello. Come vedi c’è tutto il mondo qui a Farhana: somali, yemeniti, algerini, marocchini, siriani e palestinesi. Se chiedi a qualche spagnolo cosa fanno i migranti dentro al CETI, sta pur certo che risponderanno qualcosa come nulla di nuovo, aspettano. Siamo dei surrogati di uomini per l’Europa”. Un aereo della compagnia Iberia atterra nel vicino aeroporto di Barrio Chino, sorvolando i campi da golf. Melilla, la città dell’adolescenza perduta, ha il volto di Mohammed, diciassette anni. Sudicio e affamato, attende il momento propizio per il “grande salto”. Melilla è la bocca di Mohammed che farnetica Le bateau? Aller aller. Dormiamo nella torretta antica, la faccia schiacciata contro il muro, aspettando il traghetto delle 7. Mi ritrovo raggomitolato nel cerchio, accettato con ritrosia dal branco. Si dimenticano prestissimo di me. Assumendo la postura del feto, il branco partorisce incubi.
Palazzine sventrate, greggi di pecore, pannolini sporchi: non trovo altro a Barrio Chino. La povertà, a cento metri dal confine europeo, di fatto Marocco, dilaga nei vialoni. Stessa sensazione di embargo nel quartiere Laari Cheik a Nador, dove incontro Omar Nafi, attivista dell’Associazione Marocchina dei Diritti Umani (AMDH - Association Marocaine des Droits Humains), l’organizzazione umanitaria per i diritti umani più grande del Paese. Creata nel 1979, conta attualmente novantacinque sezioni in Marocco e quasi quindicimila membri. Basandosi su ricerche sul campo, individua le diverse violazioni commesse dalle autorità marocchine, pubblica rapporti e fornisce assistenza legale e amministrativa alle vittime di tali violazioni. Dal 2015 però le attività dell’associazione in luoghi pubblici, sono illegalmente vietate dalle autorità. “La segui la nostra pagina Facebook? Allora c’è poco da aggiungere, la situazione è quella che leggi online. Tentiamo di mantenere un profilo basso; la polizia ha occhi ovunque e le persone del posto fanno segnalazioni. - incalza Omar, muovendosi nervoso nell’ufficio semibuio, scartabellando agende e quaderni - Aggiorniamo spesso il profilo di AMDH con notizie di arresti amministrativi (autorizzati dal Ministero degli Interni), deportazioni illegali e violenze da parte della polizia, ma serve a poco.
Diminuire i flussi migratori è lo slogan dei governi, ma non è così. Dietro tutte queste vessazioni senza motivo degli africani neri in Marocco, Libia e altrove, c’è anche la politica di lotta contro l’immigrazione clandestina dell’UE, e la politica di protezione delle frontiere attraverso finanziamenti a Paesi terzi quali Marocco e Libia, appunto, ma anche Mauritania o Tunisia. Stanno militarizzando capillarmente le frontiere cacciando sempre più indietro i migranti. Per certe autorità è una fortuna: un africano preso rappresenta una grande somma di denaro. Lo scopo dell’UE è quello di esternare i propri confini, delegando il controllo ad altri Paesi. La frontiera europea si moltiplica così in molte microfrontiere. Ora l’Europa finisce realmente a Tripoli, Zarzis, Zouerat. L’Italia e l’Europa hanno continuato per anni e continuano a rafforzare la collaborazione con la Libia, l’Egitto, la Tunisia o la Turchia subappaltando il compito di sorveglianza. Il confine dell’Europa, quindi, si sposta a sud: l’ultimo avamposto, anche se gestito da terzi. I diritti sono rispettati forse in Europa, ma vengono violati altrove, delegando il compito. Le frontiere dunque cambiano, non rimangono mai fisse”. L’Europa si allarga come una fisarmonica e mutano i punti d’ingresso. Scoppiano conflitti, cadono regimi totalitari, esplodono fette di mondo e si aprono nuovi spifferi. I varchi a loro volta creano porti franchi dove, per chi paga o tiene le redini del gioco, tutto è lecito. Le tappe battute fino a pochi mesi prima diventano vecchie, imputridiscono e se ne cercano subito altre, spostando il baricentro un passo alla volta. “Oltre e sensibilizzare cittadini e attivisti, cosa sperate di ottenere?” domando a Omar, che picchietta l’orologio e guarda attraverso le tapparelle sbarrate. “Cosa vogliamo fare? Comprendere le cause delle migrazioni, denunciare, sensibilizzare. Ci battiamo per i diritti dei siriani, dei gambiani, degli spagnoli. La nostra è una missione, ma il governo rende la vita difficile. È vietata la presenza di giornalisti e associazioni amiche, ma non di quei giornalisti amici del re Mohammed VI, i quali non si fanno scrupoli nel moltiplicare per tre o per quattro le cifre degli espulsi o dei migranti in transito. Il governo gonfia sempre queste statistiche. In sintesi, chiediamo di fermare le brutalità. Perché bruciare ogni mattina i ripari di quei ragazzi? Due giorni fa quarantacinque giovani hanno tentato di superare il reticolato ed entrare a Melilla senza risultato. In questi casi rimane la via del mare, ma chi se la può permettere? Per certo non i ragazzi che conosco io, in fuga da Mauritania, Mali, Burkina Faso. Non sappiamo con esattezza quanti siano attualmente: cento, forse duemila, chissà.Si spostano in periferia, vivono di espedienti, bivaccano sul Monte Gurugù dove, da anni, ha preso vita quella che loro chiamano La Repubblica Clandestina del Monte Gurugù. Occorrerebbe modificare le politiche migratorie europee, altrimenti non cambierà mai nulla”.
Persisterà l’ingranaggio malato della Fortezza, che anche oggi (settembre 2019 n.d.r), nonostante il silenzio a riguardo, ha stroncato tre nuove vite di fronte le coste di Orano. Labiad Mohammed, Azzi Abdessalam, Saada Abdelwhaeb: morti affogati. Gli agenti della Sicurezza Nazionale pattugliano a cavallo i pendii scoscesi del monte Gurugù. Li inseguo adagio, divincolandomi tra gli uliveti radiosi. La montagna dei bivacchi è ricoperta di boschi in cui si alternano pini, lecci, querce, eucalipti e una fitta macchia di arbusti spinosi. Una volta superata Nador basta raggiungere la vetta della collina che costeggia la laguna e, scendendo sul versante posteriore, è impossibile non trovare gli accampamenti degli esuli. Lì di fronte c’è Melilla, la Spagna, l’Europa.
Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).