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Birmania: “Torna l'anno prossimo anno, questo sarà un Paese democratico”
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Il militare prende in mano il passaporto e dopo averlo sfogliato velocemente mette un timbro. In meno di un minuto sono in Birmania. Da un’altra scrivania prende un altro timbro e lo stampa sulla stessa pagina. In meno di due minuti non sono più in Birmania. I turisti, da queste parti non sono benvenuti. Figuriamoci i giornalisti. Con pazienza cerco di spiegare che vorrei entrare nel Paese, che il mio non è solo un passaggio per estendere il visto thailandese. Non si può mi risponde. Ma la mia insistenza alla fine lo convince. Su un pezzo di cartone mette uno stamp. “Vale un giorno. Il passaporto – mi dice – rimane qui. Potrai ritirarlo domani all’uscita”. Vogliono essere sicuri che torni indietro e non ficchi il naso nella disperazione della gente che dal 1988 vive sotto una dittatura militare.
Il cartello “City of the Golden Triangle” segna l’arrivo in Myanmar per chi arriva da Mae Sai, in Thailandia. È il benvenuto in uno dei Paesi più poveri dell’Asia, dove uno stipendi arriva a circa 400 Kyat al mese (50 euro), e l’aspettativa di vita a 60 anni, con una mortalità infantile del 69 per mille. Dati che fanno sprofondare il Myanmar tra i paesi al mondo con il più basso sviluppo umano. Ma a pochi chilometri dal confine ci sono casinò e “locali del sesso”, per la maggior parte frequentati da thailandesi che arrivano nel week-end. Non è un caso che appena arrivato si avvicina un bambino e tenta di vendermi sigarette e viagra.
Il colpo d’occhio tra la parte thailandese e quella birmana è forte. Banche e supermercati lasciano il posto a bambini che corrono scalzi lungo le strade polverose. I camion militari hanno a bordo decine di donne e bambini. “Sono le famiglie dei militari che vivono fuori dai centri abitati e vengono qui per fare compere una o due volte al mese”, mi spiega un ragazzo birmano che lavora come guida.
Se pure munito di visto, i miei spostamenti sono piuttosto limitati. Non posso uscire dai centri abitati, non posso allontanarmi più di una quarantina di chilometri dal confine con la Thailandia, come in teoria non potrei fotografare militari o installazioni militari. Più una altra serie di cose che il regime ha deciso non devono essere immortalati.
Il Tempio di Tachileik dista qualche chilometro dal confine. Ci arrivo seduto con una decina di birmani, donne e bambini, a bordo di un pick-up scassato, che ci sbalza a destra e sinistra ogni volta che passa sopra una buca. Sembra strano, ma in questo Paese hanno tutti facce sorridenti. Appena si esce dalla città di confine, le case, per la maggior parte, sono palafitte o capanne di legno e paglia. Una signora mi dice qualche parola in inglese e mi invita a bere un bicchiere d’acqua nella sua baracca. Viene da Pindaya, una città nel centro del Paese, ma da dieci anni è sposata con un uomo del luogo. Basta che tiro fuori il taccuino e il suo volto si fa preoccupato. Cerco di tranquillizzarla dicendole che non sono un giornalista, ma un semplice viaggiatore.
La donna diventa più serena e iniziamo a parlare. “Noi non possiamo parlare con i giornalisti, è proibito – mi spiega subito, come a mettere bene in chiaro una delle prime regole assurde che la dittatura impone ai suoi cittadini – il governo non vuole e se scoprono che lo abbiamo fatto sono guai seri. Per questo mi sono spaventata prima”. Il marito, come molti da queste parti, lavora a Mae Sai, sul lato Thailandese. “C’è più business dall’altra parte”, spiega sconsolata, “qui i turisti non arrivano quasi mai. Parte il lunedì e torna il sabato sera. A noi Birmani danno un visto di 6 giorni se vogliamo andare dall’altra parte del confine. Quindi rientra soltanto il sabato sera per visitare noi e il lunedì mattina riparte”. Mentre parliamo il piccolo di due anni scoppia in un pianto senza fine. “È stanco – dice dondolandolo tra le sue braccia – non ha dormito tutta la notte per il caldo. Purtroppo non abbiamo i condizionatori come voi. Solo questi –dice indicando il ventiltore – che però fanno aria calda”.
Fuori dalla palafitta si vede la grande pagoda di More Nyin. La raggiungo a piedi passando per una piccola strada che si arrampica fino in cima alla collina. Un ragazzo mi guarda meravigliato per un po’ e poi si avvicina. Ha voglia di parlare con qualcuno di nuovo e si mette a spiegarmi la storia del Tempio. “È stato costruito da poco con i soldi che la comunità del villaggio ha donato negli anni. Lentamente lo stanno finendo, ma i soldi…”, dice allargando le braccia e alzando gli occhi. “Il governo non ha messo neppure un Kyat”. Mentre parla spuntano due sagome con la divisa verde oliva, il mitra a tracolla e le infradito. Sono i militari che sorvegliano l’entrata della base a pochi metri dal tempio. Mi hanno visto salire a piedi e vengono a controllare chi sono. Il ragazzo se ne va e mi lascia solo. Mostro il visto e senza fare domande se ne tornano dalla stessa strada da cui erano arrivati. Poi Siham torna e dice: “Scusa, ma sai, per noi è meglio non far vedere ai militari che parliamo con gli stranieri. Non si sa mai. Poi – mi dice sottovoce – io appartengo ad una famiglia Karen e loro lo sanno”.
Tornando indietro provo ad addentrarmi in una strada che porta verso il fiume, ma i militari mi fermano e cercano di convincermi che sarebbe meglio tornassi indietro, da dove sono venuto. C’è un ragazzo li con loro che mi offre un passaggio in motorino per pochi centesimi. Si chiama Gomin e parla perfettamente inglese. “L’ho imparato quando andavo a scuola – racconta – e continuo a parlarlo con i turisti che arrivano al confine per estendere il visto thailandese. Li accompagno a visitare il mercato sotto al ponte e poi tornano dall’altro lato”. Ma Gomin è anche un ragazzo che ha voglia di raccontare il suo Paese. Un po’ lo fa per soldi e un po’ perché in fondo, di questa terra piena di problemi, è innamorato. “È un Paese molto bello il Myanmar, ma purtroppo poche persone vengono a visitarlo”. Cerco di spiegargli che avere un visto non è facile e Gomin scuote la testa, come a dire “si, lo so”.
Mentre camminiamo in motorino verso il confine mi indica con il dito uno spiazzo di cemento dal lato opposto della strada. “Quello era l’aeroporto per i voli interni. Due anni fa il governo ha deciso di chiuderlo. Adesso per arrivare a Yangoon - circa 900 Km di distanza - ci vogliono 3 giorni”. Provo a chiedergli perché i militari non mi hanno fatto passare prima: “Dicono che è una zona rossa. Sulla strada dove ti hanno fermato, più avanti, ci sono villaggi e molti Shan. Adesso la situazione è tranquilla. Dopo la rivolta del 2007 non ci sono più stati gravi incidenti, ma ai militari non piace che gli stranieri mettano il naso nei nostri affari”. Il giovane mi chiede se ho voglia di fermarmi in un posto dove c’è una televisione. “Qui in Myanmar – mi spiega – alla fine del telegiornale vengono trasmesse notizie su cosa succede nel mondo. Solo pochi minuti al giorno ma a me interessa molto”.
Nel piccolo bar c’è pieno di persone sedute davanti al televisore. Alla fine del telegiornale passano le immagini delle barche fermate mentre tentavano di raggiungere Gaza e subito dopo una news sulle camice rosse. “Sai – mi dice alla fine del Tg – a Bangkok tre settimane fa si sono sparati. Hanno fatto un casino. Ho pensato che il Myanmar si fosse allargato fino la”, dice ridendo. Io scuoto la testa e mi unisco alla sua risata, anche se purtroppo c’è poco da ridere. Saliamo di nuovo sul motorino e gli chiedo di portarmi al confine. Del resto non c’è molto altro da vedere e quello a cui ero interessato i militari mi hanno fatto capire che è meglio se lo dimentico. Arriviamo alla frontiera dopo un giro in un paio di pagode lungo la strada. Consegno il casco che mi aveva prestato e qualche dollaro. Gomin mi dice: “Grazie e welcome”.
L’ufficio per il ritiro passaporti ha già chiuso e dall’altra parte del ponte i Poliziotti thailandesi stanno sbarrando il cancello. Mentre mi dirigo all’hotel sotto al ponte Gomin si avvicina ed esclama: “Torna il prossimo anno. Tra un po’ ci saranno le elezioni e questo sarà un Paese democratico”.
Andrea Bernardi (Inviato di Unimondo Thailandia)
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Andrea Bernardi per il Corriere online: