Thailandia: "Torneremo a Bangkok", parola di Radio FM 97.50

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“Ci torneremo a Bangkok. Non so quando, ma ci torneremo”. Non sa come e forse neppure perché, ma Seenam sembra sicuro di quello che dice. Seduto sotto una baracca di lamiere con la foto di Thaksin appesa alla parete non vuole rassegnarsi. Anche se forse, almeno per il momento, dovrà farlo. Nel villaggio di Don Hai Sok, qualche chilometro a Nord di Udon Thani, Nord-Est della Thailandia, capita raramente di vedere uno straniero. Nessuno si addentra in queste zone sperdute a due passi dal confine con il Laos. Attorno soltanto verdi foreste e strade sterrate.

Il luogo è poco accogliente e interessante, se non fosse che qui, in questa parte di territorio dimenticata dal mondo, nasce la rivolta delle “camicie rosse” che per due mesi hanno messo a ferro e fuoco la capitale Bangkok.

Basta camminare lungo le malridotte strade sterrate che si snodano fuori dal centro urbano per capire la povertà in cui vivono. Le risaie sono l’unica economia. Donne, uomini e bambini, aiutati da buoi, caricano sacchi bianchi da 30 chili sulle spalle degli animali. L’unica cosa che non manca, in quest’area tagliata fuori dallo sviluppo economico thailandese, è la gentilezza. Yada cucina spiedini a volontà. “Sono andata a Bangkok il 23 aprile con mio marito – racconta – e il 10 maggio siamo tornati. Era pericoloso rimanere. Siamo poveri, non abbiamo niente, ma non vogliamo morire. Adesso non sappiamo cosa succederà nei prossimi mesi. Ma se dobbiamo tornare a Bangkok ci torneremo”. Intanto, per ora, l’unica certezza è che non potranno più ascoltare FM 97.50, una delle radio che giorno e notte trasmetteva notizie sui “rossi”.

La sede della piccola emittente è a 2 chilometri dal centro di Udon Thani. Trovarla è come immettersi in un labirinto senza fine. C’è bisogno di qualcuno che conosce il posto e si fidi dello straniero che ha di fronte. Il 21 maggio, due giorni dopo la disfatta nella capitale, la Polizia è arrivata con tre fuoristrada e ha sequestrato tutte le attrezzature per la trasmissione. Ma nel piazzale davanti ci sono ancora i segni della protesta. Due tendoni rossi, come quelli che erano stati piantati nel quartiere di Ratchaprasong, sono appoggiati al suolo. Le foto di Thaksin quasi si sprecano. Come quelle della marcia su Bangkok, quando tutto ebbe inizio.

Parjuab, direttore della radio, si consulta con il mio autista e dopo un pò mi invita dentro l’accampamento. Ci sono una decina di persone. Qualcuno dorme sdriato a terra, con le fastidiose mosce che gli ronzano attorno. Simla, invece, ha un quaderno pieno di numeri. Sta contando il cibo che in questi due mesi ha inviato ai “compagni accampati nella capitale”. Con loro, qui, sembra di essere ancora a Ratchaprasong. Sono gli stessi volti sorridenti e tenaci che si incontravano girando per gli accampamenti della capitale prima del blitz militare. “Mio marito – racconta Simla – partiva da qui con il camion pieno di riso e verdure. Ogni tre giorni tornava, caricava e ripartiva”. Quando l’esercito è entrato dentro Rachaprasong è fuggito assieme alle migliaia di persone che erano rimaste. Il suo camion non sa dove sia finito. Forse è andato a fuoco. Forse è stato sequestrato.

Nella casetta tirata su con due mattoni squadrati e qualche spruzzata di cemento, dove la radio trasmetteva, l’unica cosa che gli agenti hanno risparmiato è la scritta della sala di registrazione “on-air”. Rossa chiaramente. “Qui trasmettevamo giorno e notte notizie che il governo non permetteva di far vedere ai thailandesi sulla televisione di stato”, racconta Parjuab. “Adesso – dice - è tutto sequestrato e non credo sarà possibile riavere indietro l’attrezzatura”. Inutile fare la domanda su chi finanziava tutto questo. Appena esce fuori il nome di Thaksi, Parjuab non ricorda più una parola di inglese e tra sorrisi e abbracci se ne va.

Ma a Udon Thani c’è anche chi è riuscito a salvarsi dalla censura del governo. La “home on air FM 101.75” è in piena operatività. Negli studi i giovani giornalisti sono impegnati a scrivere e programmare. “Qui trasmettiamo solo musica e notizie locali – mi dice uno dei ragazzi all’interno – e quindi non ci sono problemi”. Fuori, sul marciapiede, c’è una giovane ragazza che ha voglia di parlare. “Siamo tutti per le camicie rosse”, dice sottovoce. “La Polizia a Udon Thani sta dalla nostra parte. Però devono eseguire gli ordini e quindi in questi giorni sono andati a chiudere un bel po’ di radio, televisioni e giornali. L’altro mercoledì, quando le camicie rosse hanno bruciato la casa del governatore, la Polizia non ha fatto niente per fermarli. Solo l’esercito ha sparato, ma dopo che la casa era stata data alle fiamme”.

Wismita ha 26 anni. Vive a Udon Thani ma ha studiato per 5 anni all’Università di Bangkok. Dice di non volersi schierare politicamente, ma si capisce facilmente da che parte sta. “Secondo me – racconta – quelli che a Bangkok sparavano non erano camicie rosse”. Ma allora perché non sono stati allontanati? Wismita sorride e allarga le braccia.“Anche chi ha bruciato i centri commerciali – dice - probabilmente non era delle camicie rosse, però , alla fine, non credo sia un grande problema. Quelli hanno tutti l’assicurazione”.

A due ore di macchina verso Sud c’è Khon Kaen. Anche qui tutto è “rosso”. Ma in questi giorni la gente ha paura a parlare. Nel quartiere di Banped ci sono le case della elite. Villette in stile californiano protette dalla sicurezza privata. Sotto ai pergolati grandi fuoristrada parcheggiati e tirati a lucido. Sono per la maggior parte thailandesi nati a Bangkok e rifugiatisi da queste parti per sfuggire al caos della capitale. Anche stranieri. All’entrata c’è un grande laghetto e l’uomo della sicurezza sorveglia ogni movimento dalla postazione. Nessuno vuole sentir parlare di camicie rosse.

Eppure, a 500 metri di distanza, nel centro della città, la vita non è diversa da quella di altre città in aree rurali più sperdute. Il signor Loosemoore viene da Londra ed è arrivato nella cittadina 5 anni fa. “Cinque anni fa non c’era niente qui – mi racconta mentre passeggiamo in mezzo alla piccola Miami thailandese. Poi abbiamo iniziato a costruire. Sai, qui non è come da noi che ci vogliono permessi su permessi. In cinque anni è diventata una città nella città”. “Mia moglie – dice – è thailandese e simpatizza per i rossi. Ma non ne parla con nessuno, ha paura. Durante i casini della scorsa settimana, mentre in centro c’erano scontri con la Polizia, qui tutto era tranquillo”. Peccato che in quelle case, il 99 per cento degli abitanti di Khon Kaen non ci sia mai entrato.

Alla NBT, la “National Broadcasting Service of Thailand Radio and Television”, mercoledì 19 è andato tutto in fiamme. La grande antenna per le trasmissioni satellitari è annerita e i moderni studi costruiti 4 anni fa sono inagibili. “Duecento o forse più dei rossi sono entrati dentro gli studi e hanno appiccato il fuoco alle palazzine”, racconta Suthep Tawalee, responsabile delle news, mentre camminiamo lungo quello che rimane. “I pompieri ci hanno impiegato quasi 3 ore a spegnere i roghi”. Il risultato è che centinaia di persone sono a casa. E ci rimarranno per molto tempo.

“Stavo lavorando nel mio ufficio quando ho sentito delle urla – prosegue Suthep – mi sono affacciato e ho visto che stavano bruciando l’antenna delle trasmissioni satellitari. Sono corso fuori, non sapevo che fare. Sembrava di essere in guerra. Poi sono entrati dentro gli uffici e hanno iniziato a bruciare le attrezzature”. Non si spiega il perché di questi vandalismi. “Io non sto nè da una parte nè dall’altra. La nostra televisione dava spazio a tutti. Adesso siamo senza lavoro. I tecnici stanno cercando di mettere su degli studi nelle palazzine dietro che si sono salvate. La radio ha già ricominciato a trasmettere. Forse tra una settimana, se pure a tempo ridotto, potremo tornare a lavorare anche noi della tv. Ma con il personale dimezzato”.

Il “Tuc Tuc” di Tau si ferma davanti all’hotel. Prima di scendere provo a chiedere da che parte sta. Sorride, ci pensa un po’ su e poi esclama: “Con il Re. Io sto con il Re perché lui sta con i thailandesi”. Si, il Re. Un uomo che qui in Thailandia è adorato e venerato da tutto il popolo. Peccato che in questi mesi, se pure in pessime condizioni di salute, il Re, l’unico che poteva sedare le proteste, abbia lasciato i suoi cittadini uccidersi tra loro. Nel Nord-Est non è cambiato niente e la vita va avanti come prima.

Andrea Bernardi (Inviato di Unimondo Thailandia)

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Andrea Bernardi per il Corriere online:

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