Resistenza e profezia in Amazzonia

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«Per noi i nomi sono importanti. La nostra città si chiama Açailândia, terra dell’açaì, il frutto amazzonico più carico di vita. La madre terra, come tutte le madri, ci dà il nome. Il nostro quartiere si chiama Piquiá: uno degli alberi maestosi della foresta che non c’è più». Così dona Tida, leader della comunità di Piquiá de Baixo, vittima degli impatti socio-ambientali dell’impresa mineraria Vale e delle industrie siderurgiche installate da più di trent’anni nell’Amazzonia orientale brasiliana, ricca di ferro e di acqua.

«Queste imprese hanno distrutto la nostra storia. Macinano la nostra memoria insieme alle scorie minerali, la offuscano i fumi del loro inquinamento», le fa eco Joselma che per denunciare queste violazioni è stata anche all’Onu, a Ginevra. Le donne di Piquiá hanno scritto sulla loro pelle un racconto che ritroviamo, molto simile, in tante altre parti dell’Amazzonia. Raccontano conflitto tra due modelli: il modello del saccheggio, dell’estrattivismo predatorio di imprese e del potere pubblico che si impone dall’esterno; e quello della convivenza con il bioma, in difesa del territorio, che è lo spazio delle radici di una comunità.

I treni della Vale, l’impresa che strappa il minerale di ferro dalle viscere della foresta e lo esporta in Cina e in Europa, portano via la storia della gente, un granello alla volta (200 milioni di tonnellate l’anno). Poco a poco, tutto diventa uguale in queste intrusioni del “progresso” nel bioma amazzonico: il latifondo, la monocoltura, l’allevamento, l’estrazione minerale, gli immensi corridoi di esportazione… Mentre il ciclo della natura è ritmato dal seminare, attendere, cogliere, ringraziare e condividere. Il cammino della vita è fecondare, generare, educare, creare, curare e morire.

Ma lo schema capitalista è obbligatorio e sempre uguale ovunque: saccheggiare, produrre, consumare, scartare. Eppure, «Molto! Potete fare molto. Voi, i più umili, gli sfruttati, i poveri e gli esclusi, potete e già fate molto. Oso dire che il futuro dell’umanità si trova, in grande parte, nelle vostre mani, nella vostra capacità di organizzarvi e promuovere alternative creative (…) e nella vostra partecipazione come protagonisti nei grandi processi di cambiamento». Papa Francesco nel 2° incontro mondiale con i movimenti popolari, ha sottolineato che la storia è scritta dai piccoli. Gli unici che riescono a immaginare grammatiche nuove, a preservare la diversità creatrice.

Piquiá lo conferma: da 14 anni sta resistendo, in una lotta contro giganti. La comunità non si è rassegnata all’alternativa diabolica tra il diritto al lavoro o alla salute. Ha detto no all’economia che uccide ed esige una riparazione integrale. Ha conquistato il diritto a un nuovo quartiere, per tutti, in una regione non più segnata dall’inquinamento. Sta costruendo una nuova storia, senza tagliare le sue radici.

Papa Francesco considera l’Amazzonia non solo come uno degli ultimi baluardi di resistenza allo sterminio della biodiversità e al riscaldamento globale. Intuisce anche che il nuovo è in gestazione nelle intuizioni dei popoli indigeni e delle comunità tradizionali, nella relazione integrale delle loro società con la Madre Terra. Il Sinodo, forse, ci aiuterà a comprenderlo meglio.

Da Nigrizia.it

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