Emergenza Somalia: lacrime senza speranza?

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La morte per fame non può essere ridotta alle sue cause economiche e politiche. Se così fosse, ci potrebbero essere sempre ragioni di emergenza che la giustificano, perché l’economia e la politica contemplano anche situazioni di emergenza nelle quali si deroga alla normalità. Al contrario, la morte causata dalla miseria resta uno scandalo che ci chiama in causa e sul quale siamo giudicati, che ci piaccia o no, prima di tutto come esseri umani. Perché nella morte per fame non c’è nulla di ineluttabile: non è un destino sfavorevole che condanna milioni di persone a una lenta agonia, ma è un sistema che contempla l’esistenza di un’umanità che ha come unico diritto quello di morire, possibilmente senza disturbarci troppo.

Per questo rimangono ancora provocatorie e attualissime le parole di un grande reporter, Ryszard Kapuscinski, che al tema della povertà ha dedicato alcune delle pagine più impressionanti che siano mai state scritte: «Ho visto – affermava pochi anni fa – esseri nudi, buttati per terra come sacchi vuoti, crepare di fame, malaria, tubercolosi. Bene, nello stesso giorno sono volato a Addis Abeba e da lì a Roma, dove mi hanno portato in piazza Navona. Era una sera pulita, color madreperla. I turisti ascoltavano musica, ballavano, bevevano vino dei Castelli. Allora ho pianto. Senza speranza. Lì, in mezzo alla gente».

Nelle lacrime di Kapuscinski c’è tutta la densità del problema: com’è possibile rimanere uomini senza curarsi di coloro che sono colpiti dalla tragedia della fame? E credo che da queste lacrime senza speranza si debba partire per riflettere su quanto sta accadendo in questi ultimi mesi in Somalia.

La storia della Somalia è segnata dalla presenza di un conflitto che, in maniera più o meno manifesta, ne ha caratterizzato la vicenda sociale e politica per decenni. Dopo la seconda guerra mondiale, la Somalia venne affidata a un’amministrazione fiduciaria italiana che aveva il compito di condurre il Paese all’indipendenza, dichiarata poi ufficialmente il primo luglio 1960. Nel 1964 scoppiò la prima guerra con l’Etiopia e nel 1969 con un colpo di Stato Siad Barre prese il potere, mantenendolo per oltre vent’anni, fino al 1991. Fu un periodo caratterizzato da una guerra civile intermittente, con violente repressioni della guerriglia messe in atto dall’esercito di Barre e continui tentativi di rovesciare il regime. La fine del potere di Barre, che avvenne in un momento di ridefinizione degli equilibri mondiali e quindi anche del ruolo dei Paesi africani, coincise con un aggravamento dello scontro fra gruppi ed etnie diversi per conquistare il potere.

Nel 1992, su mandato delle Nazioni Unite, prese avvio una prima operazione (UNITAF) che avrebbe dovuto ristabilire condizioni di stabilità politica in un Paese sconvolto dalla guerra civile e da una spaventosa carestia. A questa missione ne seguì una seconda (UNOSOM), ma la battaglia di Mogadiscio dell’ottobre 1993 segnò il fallimento del tentativo di garantire un minimo di stabilità del Paese attraverso un intervento ONU. Questo ebbe conseguenze disastrose non solo perché diede modo ai detrattori delle Nazioni Unite di sottolinearne le difficoltà, ma anche perché fu fra i fattori che rallentarono l’intervento in Rwanda, solo pochi mesi dopo.

Da allora la situazione della Somalia è caratterizzata da una forte instabilità politica e da una frammentazione che non ha consentito, ad oggi, di poter contare su un governo centrale riconosciuto, nonostante il tentativo del governo provvisorio, insediatosi nel 2004, di creare le condizioni per stabilizzare il Paese. Ciò, fra l’altro, rende continuamente difficile ogni tipo di intervento anche di carattere umanitario, perché costringe a continue contrattazioni con i piccoli potentati locali e non permette di realizzare quei “piani Paese” che sono necessari nelle situazioni di grave crisi umanitaria.

In questo quadro si inserisce la carestia attuale, causata dalla siccità che ha colpito tutta l’area distruggendo i due ultimi raccolti e mettendo così in ginocchio una popolazione che non può contare, vista la frammentazione politica, in nessun serio ammortizzatore statale. A rendere ancora più spaventosa la situazione ha contribuito il brusco aumento del costo dei generi alimentari, e in particolare dei cereali, che in Somalia hanno avuto un aumento del 270% nell’ultimo anno. La concomitanza di questi tre fattori – instabilità politica, siccità, aumento dei prezzi – è stata indicata dalle agenzie delle Nazioni Unite e dalle più autorevoli Ong come la causa di una situazione insostenibile che sta causando migrazioni di dimensioni bibliche verso i campi profughi di Etiopia e Kenya, con un tasso di mortalità fuori controllo.

Tale situazione appare in tutta la sua gravità se si tiene conto del fatto che essa, con l’abbandono della terra, contribuisce alla desertificazione e alla distruzione dei piccoli allevamenti, e aumenta la dipendenza da approvvigionamenti di cibo esterni. I numeri danno il contorno del problema: al momento attuale l’Africa importa il 28% del fabbisogno calorico dei suoi abitanti, e in particolare il 58% del frumento, il 41 del riso e il 54 degli oli. Una bolletta spaventosa che i più poveri pagano ai produttori stranieri, e che aumenta a dismisura nelle situazioni di siccità e carestia. E soprattutto una bolletta che per un Paese come la Somalia è molto più cara di quanto lo sia per il resto del continente. “La convergenza di tali eventi – ha scritto recentemente Unicef – ha prodotto quella che si presenta oggi come la più grave crisi alimentare al mondo e la peggiore carestia in Africa degli ultimi 20 anni”.

L’emergenza sanitaria legata alla crisi alimentare ha ormai superato i confini della Somalia. Attualmente le cento associazioni partner di Unicef che lavorano nella zona per la tutela dei bambini hanno stimato in oltre 12 milioni il numero di persone che hanno bisogno di aiuto immediato nel corno d’Africa, un terzo delle quali in Somalia. Sul totale i bambini a rischio immediato della vita sono oltre 4 milioni, un numero enorme che rende ingiustificabile ogni argomentazione politica attendista.

Per questo le Nazioni Unite hanno dichiarato, il 20 luglio scorso, lo stato di carestia, ma ciò che è preoccupante è il fatto che nell’arco di due mesi tale situazione si è allargata a macchia d’olio, come denunciato recentemente dalla Fao. Sul piano sanitario l’OMS ha dichiarato che i mesi estivi sono stati devastanti: la forte concentrazione nei campi profughi, soprattutto in quelli attorno a Mogadiscio, ha causato un’epidemia di colera che appare in veloce espansione. Ma ciò che rende ancora più terribile il quadro sanitario è il fatto che il colera, che a Modadiscio contava in agosto più di quattromila casi, sta colpendo per il 75% i bambini di età inferiore ai cinque anni.

A fronte di una tale situazione gli interventi attualmente in atto sono soprattutto di emergenza. Si tratta di attivare programmi di integrazione alimentare e di nutrizione terapeutica, garantire il più possibile l’approvvigionamento idrico e i medicinali, fornire decine di migliaia di kit per l’igiene. Il tutto attraverso le agenzie delle Nazioni Unite, le chiese con le Caritas, la rete delle Ong presenti sul territorio. La quantità di aiuti necessari, visto il grado di deperimento e la situazione sanitaria, è enorme: dal primo luglio a fine agosto nelle aree colpite sono stati portati non meno di 400 tonnellate di aiuti salvavita a settimana attraverso voli cargo (60 solo nel mese di agosto), navi (otto nel mese di agosto) e trasporti via terra.

Che fare? È chiaro che sono indispensabili, in questa fase, aiuti economici e mezzi di ogni genere per far fronte all’emergenza e che, a più lunga scadenza, è necessario superare la rassegnazione politica per affrontare una situazione che altrimenti rischia di essere assolutamente esplosiva. Ma alla base di queste due priorità torna ancora una volta la questione posta da Kapuscinski con le sue lacrime in piazza Navona: come possiamo accettare, senza far nulla, che accanto a noi ci sia una così grande sofferenza?

Alberto Conci

Fonte: Cooperazione tra consumatori (ottobre 2011)

 

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