Palestina: case e famiglie distrutte, tra le macerie di Gaza la storia di Raed e Sharif

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Foto: Unsplash.com

«La prima parola che due dei miei figli, Wisam e Aser, hanno detto quando hanno imparato a parlare è stata kahraba. In arabo significa elettricità. Prima di dire mamma o papà, hanno detto elettricità. Perché qui non c’è mai». Sharif Hamad è un giovane palestinese di Beit Hanoun, città nel nord della Striscia di Gaza, implacabilmente nel mirino dell’esercito israeliano a ogni offensiva militare: è la porta di ingresso nell’enclave palestinese.

LA STORIA DELLA FAMIGLIA di Sharif è la storia di Gaza, persone oltre i numeri. Hanno ricostruito la loro casa già due volte dal 2012. La prima era stata distrutta nel 2014, nell’operazione Margine Protettivo: da lì è iniziata una via crucis di permessi, di un estenuante viaggio dentro il sistema di ricostruzione inventato dall’Onu e dall’inviato per il Medio Oriente Robert Serry, di tentativi di accaparrarsi il poco cemento di cui Israele permetteva l’ingresso. «Con mio fratello Raed – racconta Sharif – raccoglievamo materiali tra le macerie delle abitazioni distrutte, quello utilizzabile. E lo ripulivamo».

NEL 2016 LA NUOVA CASA era pronta, sembravano lontani i tempi in cui l’abitazione dei genitori veniva usata come postazione dall’esercito israeliano: «Nel 2005 (prima del ritiro dei soldati e dei coloni israeliani da Gaza, ndr), i militari israeliani entravano sempre a Beit Hanoun. Anche nella nostra casa: era alta e la usavano come postazione di vedetta».

Ma la nuova casa, «il posto in cui dovresti sentire più al sicuro», ha resistito appena cinque anni. Il 19 maggio 2021 un missile israeliano l’ha sventrata. Il giorno dopo sarebbe stato annunciato il cessate il fuoco tra Tel Aviv e Hamas, dopo undici giorni di operazione militare israeliana che ha ucciso 248 palestinesi, di cui 66 bambini. Tra quei 248 cadaveri, c’era anche quello di Raed.

Sharif, in Italia dal 2017 per una laurea in Diplomazia pubblica e culturale a Siena, ha ricevuto il primo messaggio da Gaza poco dopo. Gli dicevano che la sua casa aveva preso fuoco, che Raed era morto. Del resto della famiglia non si avevano notizie. «Poi ho saputo che il mio figlio più piccolo, Aser era ricoverato in ospedale. Ha due anni e otto mesi».

SOLO DOPO ha ricostruito quanto successo: «Il giorno dell’attacco Raed era a casa con mia madre, mia sorella, mia moglie Byader e i nostri quattro figli. Mio padre era da mio fratello Wisam, insisteva perché gli altri andassero da lui: è meno pericoloso, diceva. Li ho chiamati poco prima, stavano bene. Raed era sdraiato su un materasso, riposava: “La notte non dormo. Non posso dormire perché se c’è un attacco devo essere pronto a prendere tutti e scappare”, mi aveva detto».

«I BAMBINI STAVANO giocando, mia madre era in salotto e mia moglie era con Aser. Raed si è alzato per aprire la finestra. Il missile è entrato in quel momento. Byader ha protetto Aser con il suo corpo. La casa ha preso fuoco. In mezzo al fumo, sono riusciti a fuggire. Non Raed. Di lui non sono rimaste nemmeno le scarpe. Solo le foto che i suoi amici continuano a pubblicare: non ce n’è una in cui non sorrida».

Perché Raed era così, era un ottimista. In mezzo alla gioventù di Gaza che dopo 15 anni di assedio sta perdendo anche la voglia di sognare, Raed continuava a costruire nella sua mente progetti per essere felice: «Aveva aperto una gelateria, ma ha perso tutto quando gli israeliani l’hanno distrutta nel 2009. Poi ha aperto una pasticceria, anche quella è stata colpita. Ha provato con una caffetteria vicino alla al-Quds University: serviva agli studenti caffè, tè, narghilè. Dopo un anno, ripagati i debiti, il governo di Hamas l’ha buttata giù con i bulldozer. Dicevano che era stata costruita su terra governativa. Nel 2012 ha lanciato un negozio di vestiti di seconda mano dall’Europa, ma dopo sei mesi Hamas ne ha bloccato l’importazione».

Ha cambiato merce, ha iniziato a vendere altri capi di abbigliamento. È riuscito a comprare una macchina e a mettere da parte i soldi per il matrimonio con la fidanzata Rim. E si prendeva cura della grande famiglia e dei figli di Sharif. Ora c’è una casa da ricostruire, ferite da curare. «La morte di Raed ha cambiato tutto. In questi anni ho provato a costruire una vita fuori per i miei figli e la mia famiglia, anche per Raed che non era mai uscito da Gaza. Sento un vuoto enorme, lo vedo ovunque»...

L'articolo di Chiara Cruciati segue su Nena-news.it

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