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Di Olimpiadi, battaglie e limiti da superare…
Salute mentale
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Foto: Unsplash.com
Il concetto di limite è qualcosa che, ogni quattro anni, viene rimesso in discussione e relativizzato da un gruppo di atleti e atlete che hanno fatto del superamento dei limiti il loro stile di vita. Ci fanno sognare con la loro volontà di ferro, quelle gare al cardiopalma e, finalmente, quegli urli di gioia e di liberazione.
Le Olimpiadi sono uno snocciolarsi di nuovi record, tempi sempre più piccoli, gambe sempre più veloci, salti sempre più alti, movimenti sempre più precisi. Le Olimpiadi sono l’essere umano che prova a superare se stesso, oltre agli avversari, per l’onore di una medaglia che – più che pesare per il metallo di cui è composta – pesa quanto il percorso fatto per arrivarci: le ore di allenamento e i sacrifici, gli insuccessi, le cadute, i traumi e la voglia di continuare comunque.
Le Olimpiadi sono anche la sfida ad altri tipi di limite: ad esempio quello di una disabilità; o quello imposto dalla stessa società in cui viviamo, dell’esclusione sociale.
Atleti ed atlete espongono loro stessi e le loro vite per dimostrare che anche questi altri limiti possono essere abbattuti, facendosi portatori di un cambiamento sociale che è forse ciò che ci piace di più dello spirito olimpico.
Non stiamo parlando, sia ben chiaro, di cambiamenti repentini, quanto quella manciata di secondi con cui un velocista percorre i 100m sulla pista rossa. Parliamo invece di un processo lento, un’erosione costante di schemi sociali e stereotipi. Lo sanno bene gli atleti paralimpici: per arrivare alla seconda manifestazione sportiva più importante al mondo, (ma se la consideriamo come parte integrante della famiglia olimpica, diremmo la prima) ci sono voluti quasi cent’anni di storia.
L’idea dei giochi internazionali per persone disabili nacque dopo la seconda guerra mondiale, quando il medico tedesco Ludwig Guttmann ideò i Giochi di Stoke Mandeville (in Inghilterra) per riabilitare i reduci rimasti lesionati nel conflitto attraverso lo sport.
Nel 1960, si cominciò a parlare ufficialmente delle prime Paralimpiadi con i Giochi di Roma, ma solo nel 1988 a Seul ci fu la coincidenza di strutture e luogo, con Olimpiadi e Paralimpiadi organizzate insieme e il passaggio da un tipo di sport più terapeutico ad uno di tipo – anche e più – agonistico. Le prime Paralimpiadi invernali, invece, vennero ospitate in Francia nel 1992. Un ulteriore salto di qualità venne fatto in termini di comunicazione ad Atene 2004, quando i Giochi paralimpici vennero trasmessi in 49 Paesi (ma non, ad esempio, negli Stati Uniti) fino alla svolta definitiva di Londra 2012, con 2,7 milioni di biglietti venduti, ore di dirette televisive e spettatori in tutto il mondo.
Buone notizie per l’Italia: Il 24 agosto, la delegazione italiana si presenterà in Giappone più nutrita e femminile che mai, 113 atleti di cui 61 donne.
Come dicevamo poc’anzi, ci sono poi certi limiti dovuti all’esclusione sociale. Sia ben chiaro: sono lotte che molte persone affrontano quotidianamente, ma che gli sportivi amplificano a livello comunicativo in quanto modelli, esponendo le loro storie personali nella vetrina olimpica. Questi superumani si fanno portavoce di istanze finora inascoltate, provando a scardinare certi meccanismi e normalizzando ciò che prima era considerato tabù. Sarà per questo che il nuovo giuramento olimpico è stato adattato ai tempi ed ora contempla, oltre che il fair play, la parità di genere, l’inclusione e l’uguaglianza. E la parità di genere viene sfiorata per la prima volta a Tokyo con la partecipazione del 48% delle atlete e la possibilità di avere due portabandiera per ciascun Comitato olimpico nazionale.Nonostante le restrizioni per il Covid, il CIO ha acconsentito alle atlete mamme di un neonato – quindi in fase di allattamento – di portare i propri bambini ai Giochi. La decisione è comunque arrivata non prima delle lamentele delle atlete neo-mamme, che avevano denunciato il fatto di essere costrette a scegliere fra i propri figli e l’attività agonistica.
Si dice che in questi Giochi olimpici partecipino dai 150 ai 200 atleti e atlete LGBTIQ. Ma se i numeri sono poco importanti, ciò che conta è che queste persone stanno letteralmente sfondando una porta sbarrata da troppo tempo: dal coming out alla partecipazione olimpica, molti di loro si sono dovuti scontrare con la solitudine di in un mondo bigotto, retrogrado e machista, nel quale parlare liberamente di omosessualità è ancora molto difficile. Eppure loro sono lì a mostrare che il loro diritto ad essere quello che sono e amare chi vogliono va di pari passo con quello di essere sportivi di alto livello. Uno degli ambasciatori di questo messaggio è di certo il britannico Tom Daley, campione olimpico (oro a Tokyo nei tuffi sincronizzati, ma con già due bronzi dalle passate edizioni) che nel 2014 ha ufficializzato la sua relazione con l’attuale marito, con il quale ha un figlio e che si spende per i diritti della comunità LGBT+.
Una curiosità: l’atleta è diventato celebre anche per il suo rilassarsi in tribuna sferruzzando. Le creazioni a maglia o all’uncinetto vengono mostrate sulla pagina Instagram da un milione di followers “Made with love by Tom Daley”. Un’occasione per fare della beneficienza: il maglione arcobaleno da lui confezionato è in palio per chi partecipa alla campagna di crowdfounding che sostiene la lotta contro il tumore al cervello.
Dal 2015, anche le atlete e gli atleti in transizione di genere, che non si sono sottoposti ad operazione chirurgica per il cambiamento anatomico possono partecipare nella categoria del genere percepito. Le linee guida del CIO indicherebbero che le atlete transitate dal genere maschile a quello femminile possano partecipare alle competizioni nella categoria femminile a patto che il loro livello di testosterone sia inferiore ad una determinata soglia per un certo periodo di tempo. Tale prerequisito eviterebbe che le atlete transgender godano di un presunto vantaggio fisico sulle colleghe.
Com’è facile immaginare, la questione rimane tutt’altro che priva di discussioni e polemiche ed è prevedibile che il dibattito continuerà negli anni a venire.
Sebbene le linee guida fossero state rese note prima di Rio 2016, i Giochi di Tokyo sono i primi a far gareggiare atleti/e in transizione. Laurel Hubbard, 43 anni, atleta neozelandese che compete nella disciplina del sollevamento pesi, farà la storia essendo la prima transgender a qualificarsi ai Giochi. Per Hubbard, l’esperienza olimpica si è conclusa quasi immediatamente, ma ha voluto ringraziare il CIO per aver reso lo sport aperto a tutti. Il New York Times l’ha descritta come una persona riservata e che, nel 2017 aveva affermato di non sentirsi la portabandiera delle atlete transgender. Eppure un simbolo lo è diventata eccome, a prescindere dai risultati sportivi, di un punto di svolta per il mondo dello sport e non solo.
A Rio 2016 – poi confermato a Tokyo 2020 – era stato fatto un altro passo avanti a livello di inclusione, cioè quello di ammettere una squadra composta da atleti che sono stati costretti a fuggire dal loro Paese d’origine e che, evidentemente, non avrebbero altrimenti la facoltà di competere sotto i colori delle proprie bandiere. Raggiungere un’Olimpiade è qualcosa che ogni atleta d’élite sogna e per cui lavora incessantemente e l’UNHCR aveva salutato con entusiasmo il team EOR (équipe olympique des réfugiés) dei rifugiati: un segno di civiltà, di riscatto e speranza. A Tokyo 2020 la squadra EOR è formata da 29 atleti ospitati in 13 Paesi diversi e che si misurano in 12 discipline olimpiche.
Tokyo 2020 verrà senz’altro ricordata per le circostanze straordinarie, ma non sappiamo se verrà ricordata, oltre che per il Covid-19, anche per essere stata una svolta rispetto a certe stigmatizzazioni; di sicuro il mondo dello sport è lungi dall’essere un idilliaco mondo perfetto, anche in fatto di inclusione. Ciononostante, c’è da dire che il movimento olimpico non sembra voler rimanere indietro rispetto all’evoluzione della società e talvolta riesce a sorprenderci con progressi che ci fanno entusiasmare ancora di più di fronte alla forza dello spirito olimpico.
Maddalena D'Aquilio

Laureata in filosofia all'Università di Trento, sono un'avida lettrice e una ricercatrice di storie da ascoltare e da raccontare. Viaggiatrice indomita, sono sempre "sospesa fra voglie alternate di andare e restare" (come cantava Guccini), così appena posso metto insieme la mia piccola valigia e parto… finora ho viaggiato in Europa e in America Latina e ho vissuto a Malta, Albania e Australia, ma non vedo l'ora di scoprire nuove terre e nuove culture. Amo la diversità in tutte le sue forme. Scrivere è la mia passione e quando lo faccio vado a dormire soddisfatta. Così scrivo sempre e a proposito di tutto. Nel resto del tempo faccio workout e cerco di stare nella natura il più possibile. Odio le ingiustizie e sogno un futuro green.