Avere una malattia mentale a Dakar

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Foto: L. Michelini ®

Quando provo a chiedere al taxista di accompagnarmi alla divisione santè mentale dell'ospedale pubblico di Fann, mi guarda in modo strano e ripete dubbioso: “Sentimentale”? Da questa reazione deduco che la psichiatria non è una delle sezioni più considerate della piccola cittadella ospedaliera di Fann, polo universitario di Dakar.

Mi faccio lasciare fuori dalla pneumologia dove un addetto alla vigilanza mi indica la direzione che cerco. Seguo un marciapiede dissestato, supero la lavanderia, dove della lavanderia a quanto pare rimane solo l’insegna poichè quattro donne sedute a terra sono intente a lavare a mano ingombranti panni colorati, finchè, nascosto da un grande capannone che non si capisce bene se sia un deposito o una discarica, si intravvede lo stabilimento di malattie mentali.

Mi viene in mente che da quando sono in Senegal mi è capitato più volte di vedere persone visibilmente in stato confusionale vagare per la città. Come Harouna, ragazzo dal volto dolce, sulla trentina (difficile attribuire un'età a qualcuno che non si lava, non si cambia, non si rade), che a piedi scalzi rincorre le ragazze bianche incontrate lungo la strada chiedendo loro la mano. 

Un lungo colonnato in eternit conduce ad una porta senza insegne dalla quale esce una musica lontana. L’unica nota di colore è il rosso di un iris appassito all’ingresso della struttura. Con l’impressione di commettere quasi un’infrazione, non vedendo nessuno, entro con non poca incertezza. Continuo a non incontrare anima viva, c’è solo la musica a farmi compagnia.  Nel reparto varie porte senza targa si alternano a fredde piastrelle bianche, rese ancora più gelide dalla luce proveniente dai neon appesi al soffitto. Un ragazzo claudicante con un rosario in mano è la prima persona che incontro. Mi fissa negli occhi, mi gira attorno un paio di volte, improvvisamente ho voglia di non essere da sola, ma poi mi da la mano in segno di saluto e se ne va.

Intravvedo un secondo uomo che parla per conto suo, mi chiedo questa volta da quale disturbo possa essere affetto, ma poi mi rendo conto che porta alle orecchie degli auricolari e che è impegnato in una conversazione telefonica. Come è facile lasciarsi suggestionare a volte. Finalmente, un inserviente si accorge della mia presenza e mi fa notare che sono entrata dal retro. Tutte le mie speculazioni sull’aver relegato appositamente i malati mentali in una zona recondita dell’ospedale crollano improvvisamente.  Essendo sabato i dottori strutturati non ci sono, ma vengo a sapere che è comunque possibile parlare con il medico di guardia, momentaneamente occupato in una riunione. La mezz'ora che passo in corridoio ad aspettare mi è sufficiente per fare quattro nuove amicizie, ricevere due proposte di matrimonio e una poesia scritta a matita su un tovagliolo di carta. Un po’ alla volta l’insicurezza che avevo appena arrivata lascia il posto ad una piacevole sensazione di tranquillità, tant’è che ora mi sento a mio agio.

Verso le 13.00 inizia un andirivieni di donne con sacchetti pieni di bibite, frutta fresca e cesti colmi di arachidi. Probabilmente è l’ora delle visite e loro sono le mamme dei pazienti. Un ragazzo con una cicatrice a forma di undici ad entrambi i lati degli occhi, simbolo di appartenenza all’etnia peul, viene a studiarmi. Mi dice qualcosa che non riesco a capire. Francese? PoularWolof? Gli faccio intendere che non so cosa stia dicendo e per rassicurarlo gli dico “Waaw”, che in wolof significa “sì”. Mi accenna un sorriso e quasi come fosse una ricompensa inizia a cantarmi una canzone “Chi sono nella vita? Qual è il mio destino? Il reggae è la mia musica e la musica è la mia vita. Music is my life.

Vorrei ascoltare il resto del testo, ma dalla porta di fronte esce finalmente il medico che stavo aspettando. Rimango decisamente sorpresa quando al posto di un uomo mi appare una giovane donna in camice bianco. I suoi ricci neri e il profilo mediorientale suggeriscono un’origine magrebina.

Nell’attesa avevo tentato di studiare una presentazione per evitare di mettere sulle difensive il mio interlocutore “Sono qua per fare una ricerca. No. Sono una studentessa. Bugia. Una stagista. No, ancora peggio. Scrivo per un giornale ...”. Quando entriamo nel suo ufficio non so ancora come presentarmi. “Ti ho già vista o sbaglio?”, mi chiede lei rompendo il ghiaccio. Perplessa, proprio non saprei cosa rispondere. “Ma sì! Abiti a Ngor, non è vero?”. Scopro così che siamo vicine di casa e che la ragazza con cui sto parlando si chiama Faouz, viene dal Marocco e sembra molto disponibile. “Chiedimi tutto quello che vuoi”.

Ho girato diversi ospedali – mi fa sapere - e devo dire che questo posto è particolarmente all’avanguardia. E’ una struttura aperta, ossia i pazienti, come hai visto, sono liberi di muoversi e non usiamo misure di contenimento. Chiaramente per questa ragione non possiamo accettare i casi violenti. Ricoveriamo soprattutto persone con psicosi come schizofrenia, depressioni e disturbi bipolari.”

Provo a capire come i pazienti passino le giornate: “Due volte alla settimana seguono un corso di art terapy, al quale può partecipare anche chi è già stato dimesso, e in più cerchiamo di incoraggiarli a muoversi, a passeggiare. Molti si recano quotidianamente in moschea o in chiesa. Quando parlo con le famiglie dei miei pazienti cerco di capire quali erano le loro passioni per fare in modo che non le perdano, quindi chiedo di portare tutto il materiale possibile, soprattutto libri.”  Man mano che Faouz parla, mi accorgo che questa mattina sono entrata con la testa piena di luoghi comuni, ma spesso le cose non sono come ce le aspettiamo e fa piacere scoprire tanta solidarietà tra medici e pazienti, genitori e figli, nonostante tutte le difficoltà che una malattia mentale possa comportare. 

Continua, “Inoltre, la linea dell’ospedale prevede che non siano solamente gli ammalati ad essere presi in carico ma, grazie alla collaborazione con i servizi sociali, l’intero nucleo familiare. Una volta fuori da qua è a casa che torneranno, quindi è giusto che tutti i membri della famiglia imparino a convivere da subito e ad accettarsi. Anche per questo le stanze sono dotate di due letti, uno in più per ospitare un parente che chiediamo essere sempre presente, soprattutto per una questione emotiva. Non è facile vivere l’esperienza dell’ospedalizzazione, quindi la presenza di una figura amica è estremamente importante affinché si sentano rassicurati.”

Non so se tutti gli ospedali psichiatrici di questo paese siano gestiti con la stessa attenzione e premura trovati qua. Probabilmente no e sicuramente la situazione è molto peggiore nei distretti periferici e rurali del Senegal, come purtroppo conferma il giornale locale Seneweb, che spesso riporta casi di suicidi per problemi psichici trascurati. 

Per uscire dall’ospedale questa volta non sbaglio e imbocco il portone principale. La luce del sole è accecante, ma si intravvedono ugualmente gli spazi descritti da Faouz, un piccolo minareto affiancato ad un campanile, un giardino affollato di parenti distesi all’ombra di alti eucalyptus in attesa del loro turno per le visite. 

Lucia Michelini

Sono Lucia Michelini, ecologa, residente fra l'Italia e il Senegal. Mi occupo soprattutto di cambiamenti climatici, agricoltura rigenerativa e diritti umani. Sono convinta che la via per un mondo più giusto e sano non possa che passare attraverso la tutela del nostro ambiente e la promozione della cultura. Per questo cerco di documentarmi e documentare, condividendo quanto vedo e imparo con penna e macchina fotografica. Ah sì, non mangio animali da tredici anni e questo mi ha permesso di attenuare molto il mio impatto ambientale e di risparmiare parecchie vite.

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