Anna Maria Corradini: «Le mie mille ore in carcere, la filosofia è un’evasione»

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Foto: Unsplash.com

«Lo psicologo è come un dottore… lei invece è… come una mamma!». Parole inaspettate se pronunciate da un collaboratore di giustizia, detenuto in un carcere del Triveneto. «Lei» è Anna Maria Corradini, la persona che ha portato la filosofia negli istituti di pena, prima con esperienze di gruppo fra i reclusi, poi con colloqui faccia-a-faccia, persino con i «pentiti». «Sì, la consulenza filosofica è diversa dalla psicologia, che si occupa dei meccanismi psichici e fa diagnosi - ci dice Anna Maria Corradini con le stesse parole che usa per spiegarla quando si presenta ai reclusi -. La prima, invece, lavora sul pensiero, cioè cerca di capire quali sono le riflessioni che una persona è portata a fare quando deve prendere una decisione. Riflessioni che possono appartenere al passato (e che spingono anche a delinquere, ndr), sul presente (sulla vita in carcere, per dire, che costringe a convivenze spesso impossibili, ndr ) e al futuro (per chi ha commesso un reato e vorrebbe cominciare una nuova vita, ndr). Perché quel detenuto mi ha paragonato a una mamma, lasciandomi stupita, perplessa e non certo lusingata? Perché quella parola, mamma, significava per lui rinascita».

Non è facile tradurre con parole semplici il senso di questa disciplina, ma ecco una piccola semplificazione: «C’è l’esempio del cane: se hai paura del cane io non curo la paura del cane (quello è appunto compito della psicologia, ndr), ma cerco di capire perché hai paura del cane. Perché, forse, c’è stata un’esperienza che ti ha fatto ritenere il cane cattivo?”», aggiunge Corradini che si definisce, appunto, una specialista del pensiero. «L’idea - prosegue - è quella di andare a cercare quei pensieri che condizionano, in una persona, la visione della realtà e, di conseguenza, i comportamenti, compresi quelli criminali. L’approccio filosofico deve vedere, ascoltare, dialogare, senza pregiudizi e, tantomeno, pretese di formulare giudizi. L’obiettivo non è consolare e non ha niente a che fare con il conforto della religione». 

La consulenza filosofica è nata in Germania con Gerd Achenbach ed è stata introdotta in Italia dal filosofo Neri Pollastri. Anna Maria Corradini, una volta lasciato l’insegnamento della filosofia nelle scuole superiori, ha acquisito un master in Consulenza filosofica all’Università di Venezia Ca’ Foscari, curato dal Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze e coordinato da Luigi Perissinotto, con il filosofo Umberto Galimberti come tutor. Corradini è stata consulente per aziende e istituzioni, poi ha deciso di lavorare con le carceri e grazie a un protocollo firmato con il Prap (il Provveditorato per le carceri del Triveneto) di Padova, ha potuto cominciare a lavorare (come volontaria) negli Istituti di quelle Regioni. E attualmente (con la onlus Eutopia Aps) sta promuovendo questa disciplina anche in Toscana e in Umbria. Un impegno che Anna Maria Corradini ha appena raccontato in un libro dal titolo «Mille ore in carcere», edito da Diogene Multimedia.

«Me lo hanno chiesto i detenuti. Per loro - ci spiega - era un desiderio di riconoscimento, per me un volere raccontare quello che ho visto, conosciuto e anche sofferto. Perché sulla copertina c’è un frigorifero? Perché la vita in carcere “congela” una persona, senza prepararla al dopo. Eppure il carcere dovrebbe avere una funzione riabilitativa e non solo quella di “rinchiudiamoli e buttiamo via la chiave”». Dentro le mura, però, non ci sono solo i detenuti: ci sono gli agenti penitenziari, gli educatori, gli amministrativi, eccetera (anche a questi viene offerta la consulenza filosofica: non sono rari i casi di suicidi fra gli agenti): a loro quasi nessuno pensa e non sono nemmeno stati citati come «eroi», nonostante il grande lavoro che hanno svolto in questa emergenza da coronavirus. Come tanti medici e infermieri.

E, a proposito di coronavirus, nelle carceri è successo qualcosa di particolare: «In questi ultimi mesi - commenta Corradini - si sono ammorbidite le resistenze dei detenuti nei confronti dei poliziotti perché hanno condiviso la stessa paura della malattia e sono diminuiti i conflitti interni».

Adriana Bazzi da Corriere.it

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