Colombo: questo modello di carcere è dannoso e inutile

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Il 17 dicembre scorso, il Consiglio dei Ministri ha dato il via libera ad una serie di misure volte a migliorare la situazione carceraria del paese. In particolar modo, è stata proposta, tramite decreto legge, l’istituzione del Garante nazionale per i diritti dei detenuti, figura di intermediazione con il compito primario di intervenire, rivolgendosi all’autorità competente, qualora venga segnalato tanto il mancato rispetto della normativa penitenziaria, quanto l’eventuale violazione, anche solo parziale, dei diritti dei detenuti.

Nello stesso decreto legge si prevedono altre misure volte alla riduzione del numero di detenuti nelle prigioni italiane quali la possibilità per gli extracomunitari a cui mancano due anni di pena detentiva di terminare questo periodo in un carcere del loro paese d'origine, il trasferimento dei tossicodipendenti in comunità di recupero e una più frequente adozione del braccialetto elettronico.

Si stima che l’effetto di queste misure produrrà una riduzione della popolazione carceraria italiana nel numero di 3000 unità, il che permetterà di dedicare maggiori risorse e attenzioni a coloro i quali in prigione vi rimarranno.

Quelli appena descritti, tuttavia, sono provvedimenti tecnici che mirano a rendere meno esplosiva la situazione delle carceri italiane che vige in uno stato di “emergenza umanitaria strutturata” non da anni, bensì da decenni e che pertanto non riescono in realtà a ripristinare le garanzie che uno stato costituzionale di diritto deve ai suoi cittadini. Senza di queste torniamo ad una concezione dello stato simile a quello che precedette la dittatura fascista.

La nascita della Repubblica e la scrittura della Costituzione sanciscono, di fatto, il passaggio da uno stato che pretende obbedienza, da ottenere anche attraverso la punizione detentiva riservata a chi trasgredisce alle regole, ad uno stato che educa alla libertà attraverso lo sviluppo della responsabilità individuale. Purtroppo, la concezione diffusa nella popolazione che la pena detentiva sia un irrinunciabile strumento di deterrenza dei crimini, dimostra che questo passaggio non si è mai completato e, infatti, non solo le carceri sono sempre piene, ma il 68% dei detenuti divengono poi recidivi.

Insomma, a cosa serve la pena detentiva, se oltre a riempire all’inverosimile le celle di una prigione non rende nemmeno più sicura la società in cui viviamo, se non una mera vendetta?

In breve, possiamo ritenere che attraverso il male si possa educare al bene? Se lo chiede da un pò di tempo Gherardo Colombo, ex magistrato, già pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Milano durante l’inchiesta Mani Pulite, che da pensionato gira da anni le aule di scuole e università per confrontarsi con i cittadini proprio riguardo lo scollamento tra la concezione della giustizia nell’opinione pubblica e quella prevista dalla Costituzione.

Introdotto da Donata Borgonovo Re, neo assessora alla Sanità della Provincia Autonoma di Trento, l’ex magistrato è stato ospite a Trento presso il Liceo Rosmini di Trento, proprio il 17 dicembre, per presentare il suo volume “Il perdono responsabile” nel quale denuncia l’inutilità del carcere dato l’alto tasso di delinquenti che torna a delinquere spesso perché durante il periodo detentivo, questi ultimi divengono ancora più aggressivi e pericolosi a causa del dolore fisico, morale e psicologico che viene loro inflitto.

Per uscire da questo eterno ciclo di dolore e reiterazione del crimine, Colombo propone niente di più che una maggiore aderenza allo spirito delle norme costituzionali, attraverso una profonda trasformazione del paradigma di pena passando da una concezione di giustizia retributiva per la quale il dolore è considerata una giusta pena per un reato, ad una di giustizia riparativa dove sono centrali i principi di educazione e responsabilità.

L’applicazione della giustizia riparativa in un ordinamento giuridico prevede infatti l'obbligo per l’autore di un reato di porre rimedio alle conseguenze lesive della sua condotta attraverso un percorso di responsabilizzazione che vede il coinvolgimento attivo della vittima e della stessa comunità civile nella ricerca di soluzioni che rimedino all’insieme dei bisogni scaturiti in seguito al reato stesso.

Le esperienze nell’adozione di questa concezione di giustizia - prosegue Colombo - sono incoraggianti in quanto abbatte del 26% il tasso di recidiva, tuttavia esistono una serie di ostacoli alla sua applicazione la cui natura non è tanto giuridica quanto sociale e culturale. È molto diffusa, infatti, la convinzione che vi siano reati per i quali il carcere è una pena irrinunciabile. In questo senso, la scelta di incontrare soprattutto gli studenti delle scuole superiori e dell’Università ha una sua logica. Solo venendo in contatto con quella fascia di popolazione che sta ancora vivendo un momento di formazione si può nutrire la speranza che nel lungo periodo si produca una trasformazione del sistema di valori di una comunità, tale da determinare una riforma del nostro sistema giuridico. Una speranza senz’altro da coltivare per non dover più essere costretti a proporre ogni tanto alcune misure palliative e temporanee rispetto alla tragica situazione carceraria del nostro paese. 

Pasquale Mormile

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