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Ancora un 25 novembre, perché c’è ancora violenza sulle donne
Giustizia e criminalità
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“Fino a pochi anni fa nessuno sapeva cosa fosse il 25 novembre” così esordisce nell’intervista rilasciata a Unimondo Anna Pramstrahler, tra le fondatrici della Casa delle Donne “per non subire violenza” di Bologna, rivendicando il giusto ruolo che le iniziative di sensibilizzazione promosse intorno alla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne hanno svolto nell’ultimo decennio nell’acquisizione di una maggiore consapevolezza sul problema. Un cambiamento costruito attraverso una contaminazione di iniziative in tutta Italia che mirano a smuovere una riflessione preconcetta sui ruoli di genere e sul “possesso” della donna, e a far prendere coscienza sui numeri allarmanti di questa realtà.
È proprio questo il punto centrale: la consapevolezza che ha la donna di aver subito o di star subendo una violenza. Al di là della vergogna e della naturale difficoltà a confessare un abuso e a fare scelte adeguate quanto difficili per porre fine alla violenza o per assicurare alla giustizia chi ne è responsabile, spesso il ricorso della donna a giustificazioni della violenza subita rappresenta la norma. I risultati dell’indagine svolta dall’Agenzia dell’UE per i Diritti Fondamentali sulle esperienze di violenza fisica, sessuale e psicologica subite da 42.000 donne intervistate dei 28 Stati membri dell’Unione Europea sono rivelatrici in tal senso. Pubblicato lo scorso marzo in vista della possibile adesione dell’UE alla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa per prevenire e combattere la violenza sulle donne, il sondaggio rivela che la violenza sulle donne è una piaga ampiamente diffusa nello spazio europeo: il 33% delle intervistate ha dichiarato di aver subito violenza fisica o sessuale, il 22% ha attribuito tali violenze al partner, e ben il 67% ha ammesso di non aver mai denunciato la violenza né a un’associazione di supporto né alle forze di polizia. Il paradosso per cui l’Italia risulta ai livelli più bassi di tale classifica, anche rispetto ad altri Paesi europei quali quelli scandinavi, che vantano delle ottime politiche egualitarie, denuncia in realtà una situazione di modesta consapevolezza del fenomeno e di scarso ricorso agli strumenti giudiziari e di mutuo aiuto messi a disposizione dalla società civile. Proprio l’aumento in Italia del numero dei femminicidi e dei casi di violenza ai danni delle donne registrato da forze dell’ordine e centri antiviolenza non è tanto da valutare come un incremento della pratica, su cui la stampa sembra indugiare così volentieri, bensì alla maggiore disposizione alla denuncia di un fenomeno altrimenti sommerso.
Un elemento è indubbio: il modo in cui pensiamo alla violenza sulle donne è veicolato dal modo in cui ne parliamo e la comunichiamo. La violenza induce all’emulazione. Per questa ragione la rappresentazione della violenza sulla donna che mette sullo schermo o sulla carta stampata un’immagine di sangue, lividi, e in generale di orrore, appare una forma di celebrazione della violenza che difficilmente incoraggia la donna alla denuncia, al riscatto, quanto piuttosto a una maggiore chiusura nella paura. Al contrario la trasmissione della possibilità del cambiamento, della via di uscita dalla spirale di violenza appare l’unica forma di comunicazione costruttiva. “Happy Hand” è il nome attribuito quest’anno al Festival “La violenza illustrata” realizzato dalla Casa delle donne di Bologna: una celebrazione della “Non Violenza”, che non indulge in immagini cruente di spettacolarizzazione del dolore delle donne e che indica una via di uscita dalla violenza nella richiesta di aiuto. Un gioco di parole tra Hand, in inglese “mano”, ma anche “Happy End”, da intendersi dunque come “Lieto fine”. Didascalie usate in altre campagne antiviolenza come “Il corpo espiatorio”, “Finché morte non vi separi”, “Giustizia violata”, colgono più il segno di quanto facciano immagini di tumefazioni e di sangue.
Un nuovo percorso (anche informale) di educazione che mira a riconoscere la violenza appare oggi in corso ma va necessariamente affiancato a un lavoro di ben più ampia portata nell’elaborazione di una nuova cultura di genere, che consenta pari opportunità alla donna ed escluda il ricorso alla violenza. Un’educazione al rispetto reciproco dell’altro che riguarda tanto donne quanto uomini, quest’ultimi troppo spesso ai margini di tali riflessioni e azioni. Maschile Plurale è la rete di uomini che anima campagne di sensibilizzazione e di azione per affrontare e dare soluzione alla violenza maschile contro le donne, senza voltare lo sguardo dall’altra parte. Se nel 1762 Rousseau nell’“Emile” scriveva che “tutta l’educazione delle donne deve essere in funzione degli uomini. Piacere e rendersi utili a loro, farsene amare e onorare, allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce: ecco i doveri delle donne in ogni età della vita e questo si deve insegnare loro fin dall’infanzia”, oggi in Italia la condizione della donna in termini di carico di lavoro domestico e nella cura dei figli spesso non appare così distante da quell’immagine. Non che non siano stati fatti passi da gigante sul piano della tutela dei diritti umani anche per le donne, ma il percorso appare ancora lungo e soggetto a battute di arresto. La violenza sulle donne costituisce una di queste ignobili battute. Qualunque donna ci si dovesse incappare, chiami il numero verde 1522 o si rechi in uno dei centri antiviolenza sparsi su tutto il territorio nazionale.