L’evoluzione e l’ormone dell’amore

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Foto: Unsplash.com

Ossitocina. Conosciamo questo nome perché è quello che viene chiamato “ormone dell’amore”. Ma perché esattamente? L’ossitocina è prodotta dall’ipotalamo e secreta dall’ipofisi posteriore, contenuta nella struttura a fagiolo (neuroipofisi) posta alla base dell’encefalo, che contiene due ghiandole contigue.

È una molecola di origine naturale e di natura proteica che agisce per lo più su utero e mammelle: durante il parto provoca contrazioni utili a favorire l’espulsione del feto, ma è anche sensibile a stimolazioni fisiche o psichiche connesse all’allattamento, caratteristiche che introducono a discorsi più complessi legati a recenti scoperte sulle proprietà psicoattive di questo particolare ormone. Che non ha solo le funzioni appena descritte, ma che è capace anche di regolare i comportamenti sociali, sessuali e genitoriali – interviene infatti anche nei maschi, sia per la regolazione del piacere sessuale sia per lo sviluppo dell’istinto parentale.

In epoca recente l’ossitocina è stata messa in relazione con la formazione dei legami emotivi tra individui che hanno relazioni sessuali ed è elemento chiave delle interazioni sociali: da qui appunto il nome di “ormone dell’amore”. Uno studio pubblicato a inizio estate sulla rivista scientifica «Comprehensive Psychoneuroendocrinology» e condotto dall’Università di Barcellona va persino oltre, indagando i motivi per cui l’ossitocina ci può raccontare molto rispetto all’evoluzione della prosocialità umana, un termine molto vasto che caratterizza gli esseri umani moderni e che comprende l’empatia intraspecifica, la tolleranza sociale, la cooperazione, l’altruismo. Aspetti delle relazioni umane associati a variazioni dei livelli di ossitocina e dei suoi recettori.

Per fare luce sulle basi genetiche del comportamento, gli scienziati dell’Università catalana assieme ai colleghi della Rockefeller University hanno avviato uno studio che mette in correlazione le sequenze del genoma al momento disponibili per questi geni tra gli umani moderni, i primati (come scimpanzè, bonobo e macachi) e l’uomo di Neanderthal e Denisova.

Un approccio multidisciplinare per capire l’evoluzione della prosocialità degli ominidi attraverso la lente dei recettori di ossitocina e vasotocina, i cui risultati fanno luce sulle possibili differenze in termini di rapporti sociali: per esempio, i ricercatori hanno identificato negli uomini moderni 5 siti in cui i recettori di ossitocina e vasotocina (che li rendono unici rispetto ai gruppi di confronto) si riscontrano nel 70% della popolazione moderna e si trovano in regioni del genoma attive nel cervello, in particolare in quelle parti rilevanti nei percorsi di interazione sociale. Aspetti che si traducono in possibili chiavi di lettura di alcune delle differenze sociali che caratterizzano gli uomini moderni rispetto per esempio alle informazioni disponibili sui Neanderthal, che avevano strutture sociali poligame e un maggior livelli di competizione tra individui maschi.

Se da un lato esistono varianti presenti solo negli uomini e non nei primati, che indicano un rapporto tra ossitocina e aumento progressivo della tolleranza sociale (necessaria per la trasmissione culturale di innovazioni tecnologiche come per esempio l’utilizzo del fuoco), dall’altro lato emergono convergenze tra l’uomo moderno e i bonobo (ma non con gli scimpanzè), preziose per comprendere meglio le connessioni in termini di socialità, tolleranza, empatia, attenzione e cooperazione. Una serie di rilevazioni che si sta dimostrando utile anche per lo studio di disordini associati a patologie che includono deficit sociali, come per esempio quelle dello spettro autistico. “Capire disordini dello sviluppo attraverso le lenti dell’evoluzione può aiutare a raggiungere risultati promettenti per quella che noi chiamiamo biologia evo-devo (evolutionary and developmental)”, dichiara Constantina Theofanopoulou, ricercatrice che ha condotto lo studio, sottolineando come questo approccio possa delineare una traiettoria evolutiva che può illuminare la ricerca da un punto di vista genetico e diagnostico.

Un passo in avanti che, come molti avanzamenti nella ricerca scientifica, non sale agli onori delle cronache ma costituisce un importante tassello per delineare il quadro non solo di chi siamo, ma anche di dove stiamo andando, seguendo lo sviluppo dei nostri ormoni.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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