Dalle proteste al volontariato, la lezione dello spettacolo

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Foto: Unsplash.com

I got my first real six-string

Bought it at the five-and-dime

Played it 'til my fingers bled

Was the summer of '69

Chi non ha regolarmente un brivido di adrenalina su questo attacco, uno dei più famosi e longevi del mondo del rock? Per me l’istantanea è il 1993, anche se il brano Summer of ’69 esce nel 1984. Siamo io e la mia amica che “giochiamo a ballare”, 10 anni e ancora tanta voglia di sognare palcoscenici e successi dal prato di casa, insieme, consumando noi di risate e la musicassetta dei suoi genitori a forza di play & rewindMai avrei detto, allora, che un giorno avrei scritto un articolo su quel chitarrista con la camicia a scacchi che scaricava energia su ogni nota. Rockettara lo sono un po’ rimasta, ma Bryan Adams oggi non è più solo uno tra i più coinvolgenti protagonisti della vecchia guardia del rock. È un esempio di responsabilità sociale e ambientale che porta nel mondo della musica una sensibilità necessaria e preziosa.

Negli ultimi mesi abbiamo ascoltato e letto di quanto la crisi generalizzata indotta prima dalla diffusione del virus e subito dopo dalle norme messe in campo per contenerlo abbia afflitto alcuni settori più di altri. Uno dei più colpiti è il mondo degli eventi, dell’organizzazione di manifestazioni, spettacoli e concerti, per antonomasia luoghi di assembramenti, vicinanze, mescolanze e, oggi, purtroppo, anche di possibili contagi. La grande tristezza è non solo innestata sulle incommensurabili perdite economiche del settore, ma anche sulla consapevolezza che improvvisamente le proposte e le occasioni di crescita culturale sono diventate pericolose, e questa volta non perché “a tanti la cultura fa ancora paura”, ma per motivi di salute, personale e collettiva.

flight case allineati come bare in piazza del Duomo a Milano hanno impressionato molti: per i recenti ricordi che quelle file ordinate di contenitori neri evocano, ma anche per la potenza coreografica e sonora di una manifestazione dei bauli dal messaggio limpido: ripartire non significa solo rimettere in moto la produzione perché “tutto torni come prima”, ma significa anche tutelare la conoscenza, lo scambio, le opportunità di apprendimento tout court, non solo tra i banchi di scuola. Significa ripensare il nostro modo di vivere, lavorare e stare insieme, non negando la condivisione ma garantendola in sicurezza. Parole facili, azioni difficili, certo. Ma indispensabili per salvaguardare posti di lavoro in condizioni di fragilità e stimoli relazionali e culturali imprescindibili per un paese democratico che intende proteggere la comunità, in salute fisica, ma anche mentale nel senso più ampio. Tra i cantanti che si sono uniti alle voci di tecnici, fonici e artisti spiccano nomi come quelli di Emma, Cesare Cremonini, Vasco Rossi, Niccolò Fabi, che hanno sostenuto la protesta affiancando le crew con le quali quotidianamente, in tempi non sospetti, condividono il palco.

Ma torniamo a Bryan Adams. Giorni fa sulla sua pagina Instagram ufficiale ha pubblicato un post, una foto di lui in riva al mare con un grosso sacco di rifiuti in mano e una frase: “Posso rendermi utile fino al giorno in cui i musicisti potranno tornare al lavoro.” La sua è una risposta, di immagine ma anche fattiva, all’appello lanciato da Ocean Conservancy, realtà che promuove l’applicazione di soluzioni su basi scientifiche con la finalità di proteggere e salvaguardare gli oceani dalle sfide di questi tempi, dai cambiamenti climatici all’inquinamento dei mari. E che ha lanciato la campagna #CleanOn, con un piccolo spunto: possiamo anche essere lontani e separati in questo 2020, ma insieme possiamo ancora fare molto, ciascuno la sua parte: possiamo continuare a ripulire le spiagge per esempio. Invito che Bryan Adams ha subito raccolto, e probabilmente non solo per valorizzare il suo profilo social, ma anche perché persona attenta a scelte di sostenibilità, a partire dalla pratica di un’alimentazione vegana. 

Quando ho letto il post ho pensato che fosse rischioso scriverne un pezzo associandolo ai problemi che sta affrontando il mondo dello spettacolo. Per chi vive in prima persona i disagi e le pesanti conseguenze, economiche e motivazionali, di un lavoro precario nell’ambito dell’organizzazione di eventi culturali, è un argomento delicato da affrontare. Da un lato c’è il rischio di vedere altrove le priorità, dall’altro quello di cadere nella faciloneria di certe generalizzazioni, del tipo “voi, invece di manifestare, andate piuttosto a fare volontariato”. Una cosa però non esclude l’altra. Manifestare ha senso, e molto. Per far sentire la propria voce, per riaccendere i riflettori sui palcoscenici dimenticati, vuoti non solo perché mancano i protagonisti, ma anche perché dietro le quinte la crisi urla nel silenzio che si concentra altrove. Contemporaneamente, però, mi è venuta in mente una frase del Mahatma Gandhi che ha allacciato un filo intorno a questi pensieri: “il modo migliore per trovare te stesso, è perderti nel servizio agli altri”. Per il bene nostro come singoli e come comunità, ma anche per il bene del Pianeta.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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